Poesie per "I caduti del Cristo Risorto"

 


Nota al libro “PANE LAVORO E SANGUE” di Elio Coriano edito da Musicaos nel 2020

Il primo colpo di sciabola mi stordì
il secondo mi uccise
la testa vomitò il cervello
la fame mi aveva spinto in piazza
quel soldato che mi sfondò il cranio era un
bracciante come me
ripulito da una divisa e da un cavallo
a cui avevano dato l’ordine di mantenere l’ordine
di mantenere l’ordine dei sazi contro gli affamati.

Per i “cafoni” non c’è pietà. Per i subalterni della Storia solo sangue e fatica, fatica da bestia. Per i “cafoni” non c’è misericordia: essi devono solo lavorare fino allo sfinimento per poter “meritare” un tozzo di pane per loro e per i loro figli. E mai possono protestare, nemmeno al cospetto di angherie, di soprusi. A Galatina, nel 1903, le forze dell’ordine, aizzate dai padroni, spararono senza alcuna remora per sedare una rivolta contadina. I lavoratori della terra sanguigna ed arsa scesero in piazza per denunciare lo sfruttamento, la secolare privazione. Si lamentavano, i povericristi, per il pane negato. Ma i padroni non hanno rispetto. Angelo Gorgone fu ucciso da un colpo di fucile; Giuseppe Masciullo da una pistolettata; Oronzo Lisi morì dissanguato per un fendente di sciabola. Dopo tre ore di aspra battaglia, si contarono inoltre settanta feriti (alcuni con menomazioni irreversibili).  Questa triste e dolorosa storia salentina è confluita liricamente nel libro di versi “PANE LAVORO E SANGUE” (Musicaos Editore) di Elio Coriano. Il poeta salentino ebbe, nel 2018, l’incarico dal Club per l’Unesco di Galatina, in provincia di Lecce, per ricordare con i suoi versi “I Caduti del Cristo Risorto”, del 19 aprile 1903. Coriano, con grande umanità e pathos, traccia un racconto significativo e appassionante, dolente e senza sconti (per i padroni), di quella vicenda. Coriano è sempre stato attento, in tutta la sua ricerca poetica, all’universo dei vinti, degli ultimi, degli “sconfitti” dalla Storia. Il suo canto è un grido lancinante, fitto, universale, è una voce potente e vibrante che denuncia lo status quo non in modo sterile, ma alfine di poter cambiare il corso degli eventi. Il suo canto non ha nulla di artificioso, di costruito a tavolino: è redatto sul campo di battaglia con l’inchiostro rosso del sangue e di quello dei povericristi.  Scrive Mauro Marino, in una nota comparsa su “PANE LAVORO E SANGUE”: “La poesia di Coriano è fatta di “r/umori”: dà voce, è voce. Atto plurale, testimonianza; presa in carico della Storia, della vita e delle vite in essa. C’è sempre-a legare, verso dopo verso- una premura, un accudire, un rendere onore a chi, dimenticato, chiede, da sempre, attenzione e giustizia, remoto è l’ordito che tesse la Storia, inesausto nella conferma della sciagura”. E, in effetti, i protagonisti incontrastati negli scritti di Elio sono i senza voce, gli esclusi, che chiedono una carezza. E il poeta si prende cura di loro con amore, dà voce anche nelle performance letterarie a questa umanità negletta, in compagnia quasi sempre della moglie Stella Grande, artista popolare, che della voce ha fatto il suo mestiere di vivere.

Voi santi non rimanete sempre nelle nicchie sugli altari
Non state sempre in chiesa
Venite con noi alla macchia alla terra alle stalle
Venite con noi a mangiare il poco pane senza sale e senza olio
Venite con noi a condividere malaria e analfabetismo
Così vedrete così saprete
Che non c’è bisogno di andare all’inferno per sapere l’inferno.

I “cafoni” sono vittime di ingiustizie antiche, sono stati trascurati dai padroni, intenti a bere marsala e a fumare il sigaro. Quei “sacrificati” quel giorno di “Cristo Risorto” ebbero il pregio di risvegliare le coscienze di tanti lavoratori del Salento. Tant’è che, da lì a poco, fu stilato uno dei primi contratti di lavoro tra contadini e agrari. Scrive Giuseppe Cristaldi, in un’altra nota: “E proprio dinnanzi all’invariabilità di tale ingiustizia che interviene, soverchiante, Coriano, sicché quella che alle prime potrebbe sembrare una riesumazione storica, acquisisce le sembianze di un’allegoria universale, tanto scomoda quanto indispensabile nell’era degli oblii. Il poeta presta letteralmente il suo corpo artistico, compiendo una immolazione psicofisica”. E davvero, leggendo il libro, abbiamo l’impressione che Coriano sia totalmente preso, corpo e anima, da questa orribile vicenda di cronaca. Quasi in uno stato di trance virtuosa e poetica, Elio si lascia incatenare dai fatti, descrivendoli con verve amara. Si resta stupiti da certe asserzioni: “Al sud tutti i paesi si chiamano Fontamara/Tutti i contadini hanno lo stesso nome e gli stessi calli/Tutti hanno sempre fame e sono magri/Soffrono pure di mille malattie di cui non sanno il nome/”. Il pensiero filosofico, che anima l’intento del poeta, è la possibilità di riscatto di questa gente umile, costretta a subire umiliazioni millenarie. E Coriano nel suo incedere non fa sconti a nessuno: né ai padroni, né ai santi. Come è possibile chiedere pane e ricevere piombo? Come è possibile sporcarsi ripetutamente le mani e le ginocchia sbucciate, mentre i signori affamano? Come è possibile non permettere ai braccianti neppure la facoltà di pensare? Come è possibile che, in quell’era oscura, le leggi dello Stato andavano con i potenti, e i morti di fame dovevano diguazzare nell’oblio? C’è rabbia poetica in “PANE LAVORO E SANGUE”, ma non una mansione distruttiva dell’esistente, semmai una felice rabbia costruttiva, che viene da Coriano incanalata in una storia dilacerata, che avrà poi nuove albe di rinascita. Del resto, il poeta non può mai demolire, distruggere. Il poeta, per definizione, deve solo creare, costruire ponti di conoscenza, deve dare sollievo all’umanità.

Tu come ti vesti chiedevano al figlio del contadino
Io non mi vesto rispondeva lui
Tu che cosa mangi?
Io non mangio
Tu cosa leggi?
Io non so leggere
Tu dove dormi?
Sulla paglia
Quando stai male chi ti cura?
Vado in chiesa a pregare
Tu che cosa sei?
Non lo so vossignoria me lo dica lei.

 Marcello Buttazzo