Se scrivo che salto a piedi pari la tentazione di sottolineare l’esordio adolescenziale di Gloria Ronco, ne rimarco il debutto. Si tratta di un inizio giovanile, questo non si può ignorare. Un io poetico, un altro, è venuto al mondo. Non parte da una tabula rasa. Definiamo materna la prima lingua che parliamo, qual è il materno che colloca questa prima uscita poetica? Questo groviglio dà adito a chiedermi quali siano i suoi modelli letterari, se i suoi versi siano acerbi. La lettura non mi ha permesso di identificare i caratteri genetici letterari (mio limite). La sensazione, tuttavia, è che Gloria Ronco sia pervenuta alla scrittura dopo molte letture di versi. Mi induce a crederlo l’esperienza, diluita nella lettura di Quella roba dovevo lasciarla agli altri, di una sperimentazione formale varia, uno stigma mai scontato neanche tra gli esordienti. Se l’esito di questa ricerca sia un’acerbità, non mi sembra. In ogni caso, benvenuta.
Il tema principale della raccolta potrebbe dirsi: l’amore. Questo tema, declinato con varietà, si allarga e diventa: ricollocazione nel mondo; un mondo di relazioni nel mondo (dell’adolescenza, certo); oltre la casa / gabbia dell’io. In queste declinazioni, si coglie la tensione di una espressività in cerca di voce. Di questa urgenza febbrile, credo si possa dire che anticipa (si avverte prima di) le trame che si traguardano attraverso i versi.
Ciò detto, la mia non sarà una ricognizione analitica; piuttosto, è un procedere saltabellando.
Un’ironia leggera (se non è il modo poetico principe, comunque si fa notare) percorre il libro: la scultura / forse non l’hai mai apprezzata, / ma neanche le mie parole, la scrittura. Il corpo fa corto circuito con i versi, e subito dopo: i baci, la poesia, le mani, - che spreco -, un’offerta diventa un eccesso; e più in là le cure di una pianta, un albero, un fiore: l’elaborazione di un dolore che nell’accapo diventa un bonsai da innaffiare.
L’assoluto
delle parole, che dicono ma non sono, così si stempera; l’urgenza del dettato,
invece, si conserva.
Molte delle metafore sono ereditate (nulla da eccepire). Ma se a pronunciarle è una giovane donna, che le riscopre nell’affinamento dell’espressione per via di versi, quelle metafore ridiventano nuove. C’è un ciliegio perduto. Forse non rimanda a Čechov, ma come in Čechov rinvia al tempo che passa e tutto trasforma (dissolve).
Una
felicità compositiva altro che acerba: versi brevi, parole semplici e dense, un
simbolismo malinconico (e antico), che celebra sommessamente la gloria,
profumata fuggitiva disobbediente, dell’illusione (lettura arbitraria, mia) che
chiamiamo Poesia.
Oppure,
ancora: una metamorfosi, che fatica a compiersi, dell’anima (e in subordine,
del corpo), un moto ondulatorio tra il consueto e il nuovo; innaffiato e benedetto,
il nuovo, dall’acqua, infine col suggello delle labbra.
Fiore di
loto
che
trionfante levi
al
crepuscolo
le dolci
membra,
vinci le
luci
col
riflesso dei tuoi
canti
passati.
Disobbediente,
fuggi
come
evaso:
al tuo
nido non resta
che il
profumo
che hai
lasciato.
Ora sei
qui, in ritardo,
ma
piove, ed io,
ti bacio.
“Se ne
scrivono ancora”, recita un verso (un incipit) di Vittorio Sereni. Che accosto
(nel segno di un’arbitrarietà analogica) alla clausola di Gloria Ronco.
Gloria Ronco, Quella roba dovevo lasciarla agli altri, dicembre 2021, Spagine
MASSIMO GRECUCCIO