Le danze di nervi di Gianluca Conte



La poesia può essere indocile, una lama che penetra nel fondo del fondo, che scende nella carne viva e apre squarci. La poesia può essere una lacerazione nelle membra, uno schiaffo in pieno volto, una trafittura che fa sgorgare un fiume carsico, che emerge e erompe.

Non sono tra quelli che per fare poesia
hanno bisogno d’una salma
di qualche pezzo di carne putrida
da spendere nei circoli viziosi dei vati
nell’effimera luce che vaga inascoltata
per mense della mente, dove la meta è una visione

Una poesia mai consolatoria, quella di Gianluca Conte. Laureato in filosofia, scrittore, saggista, operatore culturale. È ideatore e curatore del progetto “Itinerari metacreativi” e del blog di letteratura, poesia e saggistica “Linea Carsica”. Tra le altre cose, ha lavorato per anni al progetto “Madri a Est”, studi sulla situazione postbellica in Croazia e in diverse aree balcaniche. Ha pubblicato numerose opere di saggistica, di narrativa, di poesia. Gianluca Conte, professore di Filosofia e Storia nei Licei, è una persona dolce e delicata, che ama il dialogo e la comunione spirituale e amicale. Ama il contatto e la condivisione. L’attimo che si fa parola. Nei nostri incontri ad un tavolino del caffè, Gianluca sa declinare lo spazio e il tempo, sa discernere il vero dal verosimile, il bello autentico da ciò che luccica falsamente e in apparenza. Lui sa spezzare il pane fraterno con discrezione, conosce pienamente la mansione dell’ascolto. È un uomo dai centomila interessi, tutti traversati con competenza di intendimenti, affrontati con analisi dettagliate, con studio accorato: dalla letteratura alla filosofia; dall’arte a tanti aspetti della vita, che riguardano l’umano sentire.

Un nostro intimo e fraterno amico, Vito Antonio Conte, scrive: “Poesia/È staccare la spina/Tagliare ogni legame/Trovare il sé/ Farne parola/ L’unica possibile/Per l’altro da sé/E (comunque – prima) /Sempre vivere”. E così anche Gianluca Conte sa trovare sempre la parola giusta, opportuna. Non solo in poesia. Lui mi rammenta che, prima di ogni cosa, dobbiamo vivere e traversare con dignità questa incerta e alterna ventura, denominata vita. Amo la poesia di Gianluca Conte, perché non è un pannicello caldo, non è mai quieta, non è mai un’esplorazione sterile del vero e del verso, ma è sempre una penetrazione radiante nella matrice sotterranea, uno sparigliare del connettivo delle ossa per rintracciare cellule d’universale.
In “Universo intimo” (Alimede/Poesia), c’è lo sguardo ficcante e inquieto dell’autore, una discesa a piedi nudi fra i meandri della vita, che corre come un flumen. I suoi versi sono originali, seguono un ritmo di suoni; peraltro, la cifra dimensionale della parola non è mai convenzionale. Occorre leggere e rileggere “Universo minimo” (che è del 2016) per comprendere la verve immaginifica e lo svolgersi multipolare dell’esistente, per entrare in sintonia con quel meccanicismo di immagini e di figurazioni, con quell’universo segreto, che l’autore disvela…

La città perduta è qui davanti a te
nel male che non muore
e stringe i colli
e fa di un’altra volta un’altra notte
nel silenzio di chi sa ma tace
per non morire di bontà,
per non cedere alla pietà di fiacchi lumi
e addormentarsi, buchi neri, nell’aurora.

Fra le raccolte poetiche di Gianluca Conte, “Danza di nervi” (Lupo Editore, 2012), è un piccolo gioiello di visioni, di stile, di contenuti, di trovate linguistiche. “Danza di nervi”, tra l’altro, ha vinto il Premio Puglia Libre 2012 nella sezione “raccolta lirica”. L’idea di base è che, prima di vergare versi, occorra magari leggere diffusamente e avidamente, confrontarsi con gli altri universi, seminare e seminare per far fiorire virenti virgulti. Compaiono nella silloge il Mondo e i suoi rapporti sociali e la Terra, nostro luogo d’origine e d’elezione, la nostra culla di zolle marroni. L’autore scava la finzione della maschera, ciò che “furoreggia” nelle convenzioni sociali, ed esprime il suo anelito verso un mondo più puro. La poesia di Gianluca Conte si dipana nell’equilibrio sostenuto fra lirismo poetico e impegno sociale. Per certi aspetti, è poesia d’amore e, al contempo, di denuncia civile. È, senz’altro, poesia che catalizza il bello, lo fa vedere sotto varie sembianze. Le scelte linguistiche sono attraenti. La melodia e la musicalità sono ottenute non per artificio, ma per naturalità. Qualche critico ha fatto notare come Gianluca Conte sia un poeta fuori dal coro, che rivendica con forza la sua unicità. La sua penna non rassicura, ma ferisce, non per dilaniare inutilmente, ma per urlare pazientemente la palingenesi del mondo. Lui esprime, talvolta, la sua rabbia, come quando evoca la mattanza, che colora di rosso angoli di speranza. Lui sa che troppo grande è la sventura e confondiamo vite e spazzatura. Gianluca scrive della realtà, delle maschere di ipocrisia, della sete di giustizia che gli ultimi reclamano ad alta voce e che viene sistematicamente negata; canta di precarietà del vivere. E sebbene, in “Danza di nervi”, sia incisiva l’individualità del poeta (la sua formazione, il suo sé), quella di Gianluca non è una poesia ammantata di Ego, non compare mai un compiacimento del proprio incedere. Tutt’altro. Nei versi dell’autore, prevale un sentimento di condivisione, un voler necessariamente confrontare la propria rabbia con il travaglio altrui. C’è una tristezza di fondo nel procedere dell’autore, che passa il tempo e porta via certezze vacue come sabbie amare. Con un intento poetico di voler svestire la mantiglia di neghittosità. La poesia di Gianluca Conte è fortemente incistata nella terra, nella realtà anche controversa. Gianluca è un poeta di questa terra, ma strizza gli occhi al cielo, per trovare lampi d’eterno.

L’albero della vita non cresce tra i morti – dicevano.
Qui nel giardino dei pazzi è tutto su una tela,
schizzi carichi d’interiora
rivoltate, senza senso.
Io pianto radici nella strada, dove non cresce niente.
Io decido i giorni, spire come serpi antiche
perso in androni privi di pietà.
Dopo l’acqua alta, non puoi tornare.

Marcello Buttazzo