“L’impero che si tace” di Ilaria Seclì

 



di Marcello Buttazzo - 

La poesia dell’incanto meraviglia, stupisce, strabilia. Essa rompe i canoni dell’ordinarietà, trasvola in terreni mai esplorati, inesplosi, accende i cieli di inedite azzurrità. Essa è pura come i mari verdini del Sud, accoglie scaturigini d’essenza e d’interiorità, di là dalle grossolane vestigia dell’apparenza. La poesia dell’incanto sa misurare il respiro delle piccole cose, quelle minuscole, impercettibili, sconosciute ad uno sguardo sommario e superficiale. Essa è miracolo, preghiera, giorno che procede per svelamenti, per immagini, per fotogrammi, per sensazioni, per sonorità d’una musica ammaliante. Essa non segue registri linguistici canonici e stereotipati, ma incide sensibilmente con il suo passo originale e unico. La poesia dell’incanto ama il conosciuto, ma soprattutto l’inconosciuto, ciò che sfugge all’analisi frettolosa del vero. E fra le righe fa pullulare un mondo misterioso, che emerge dal manifesto e direttamente dall’inconscio, per poter navigare, discreto e taciturno, sulle creste del visibile. La poesia dell’incanto si sostanzia, ma mai s’imbelletta, di tutta la bellezza del mondo. È una poesia che odia gli orpelli e i trucchi di facciata, ma al contempo è una poesia densa, complessa, articolata, straripante di venustà nello scorrere del verso. Secondo certuni, non è propriamente né poesia in senso stretto, né prosa poetica. Ma è un respiro lungo sulle cose della Natura, è un passo libero, un trasalimento dell’anima. È una poesia che, con un linguaggio estroso, inventa nuovi universi e riesce a depotenziare la bruttezza violenta dominante, mettendola a tacere, relegandola ai margini. Ilaria Seclì è una maestra della poesia dell’incanto. Lei sa maneggiare la parola come pochi altri poeti in Italia, con una cura certosina, meticolosa, e con una creatività esplosiva. Non si può parlare degli scritti di Ilaria Seclì, senza soffermarsi, seppur brevissimamente, sulla sua persona soave e alata. Ilaria è dolce e fine, come la sua poesia. La sua umanità, il suo sorriso, la gentilezza, sono doni immateriali assoluti. “Più bella della mia poesia, è la mia vita”, ripeteva Alda Merini. Mutuando quest’assunto della poetessa dei Navigli, potremmo dire che, più bella della poesia di Ilaria Seclì, c’è solo l’anima nivea, di giglio, adamantina di Ilaria. Il suo rapportarsi all’altro con onestà e con estrema umiltà. Lei sempre intenta all’ascolto, alla compartecipazione, alla condivisione, ad entrare in sintonia fraterna con gli amici e con le amiche. Di Ilaria mi piace il suo francescanesimo praticante, questa passione incondizionata per il piccolo, per il fragile, per l’indifeso. Una tavolozza di virtù e di carismi sono impressi a tenui colori pastello in lei, che, prima d’essere una grande poetessa, è una grande donna. Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, ha pubblicato varie raccolte. Suoi scritti sono presenti, oltre che nei maggiori siti italiani di letteratura, anche in varie antologie. Gestisce il blog: “Le ragioni dell’acqua”. Ha viaggiato molto e ciò si scorge nei suoi versi. Impegnata in letture, spettacoli teatrali, collaborazioni poetiche e musicali. Nell’ultima sua opera “L’impero che si tace” (Giuliano Landolfi Editore), compie un viaggio d’un certo riguardo, con brevi testi, frammenti di ricordi, con un evolvere di sentimenti, che affascina e sorprende. Si passa da Lecce a San Cataldo, da Trieste a Parigi, da Cividale del Friulì a Pozzis, dall’isola di Kampa a Praga a Porta Venezia a Milano. E i luoghi fisici descritti hanno un’aura di sogno, assurgono a luoghi dell’anima, dove la poetessa confonde e immerge il suo io; epperò, fa anche seraficamente naufragare la vista e la cognizione del lettore, che si sente protagonista dell’infinito scenario. La poetica di Ilaria non conosce l’esaltazione dell’Ego sfrenato. L’autrice sovente si mette da parte, racconta gli altri. Uomini, animali, sostanze inanimate. La corte dei gatti fra la chiesa greca e le benedettine, bambini, il gallo che chiede l’ora, nidi di animali magici, scorciatoie per farfalle e briganti, campanili nei laghi, paesi sommersi, le rose scordate sul treno. Sui prati di Parigi ci sono ragazzi sdraiati, aperti come girasoli, Trieste apre succhi di melagrane vizze. La poetessa narra ancora delle donne dei paesi celesti, del procedere d’un topolino, della fanciulla che ha in grembo uno stelo, di cantilene di bambini, della madre che la teneva per mano, di sentieri, fiumi, tronchi, fungi. Il microcosmo e il macrocosmo vengono tratteggiati con delicatezza. La poetessa concede la sua lira a bimbi e matti. Nel suo universo esistenziale, lucertole, gazze, formiche, cieli gravidi d’uccelli e luce, cani gatti fiori a punti gialli sull’aria di gennaio, il senegalese Ibhra, Giuliana, Nicola, e la rosa di Zoretti presa dal giardino dei treni. “L’impero che si tace” è ciò che non balena immediatamente all’attenzione sensibile superficiale. L’impero è ciò che, a volte, è invisibile, sotterraneo, sottotraccia, ma ha un’enorme valenza, un indiscusso valore inerente. È ciò che non compare in questo mondo ipertecnologico della mercificazione, dove tutto è usa e getta, dove c’è chi fa strame dell’umano, fa cencio dei sogni, delle utopie, delle speranze. Il registro linguistico è singolarissimo, c’è un’armonia sublime nel procedere della parola. “L’impero che si tace” è un’opera visionaria, unica, un po' favola di vibranti corde, un po’ filastrocca, dove l’autrice fa barbagliare melanconia, nostalgia, sincerità e fa dondolare con le parole la bellezza fanciulla. L’autrice vezzeggia le ore e fa del profondo umano sentire un status poetico di grazia, che l’accora, mai la lascia, mai l’abbandona. “L’impero che si tace” è un’oasi di luce e di splendore, dove la parola depurata dalle insidie trova la sua intima significazione:

“Ben ritrovato pomeriggio di latte, signore nell’autobus celeste che porti a spasso il cappello chiaro e la casacca porpora, lo stesso che cammina per le strade di Coimbra mentre la ragazza fissa gli occhi di lui nei modi che sappiamo e solo mandorli e arrivi animano la stazione nel giugno perfetto, perfetto cielo a piombo per le nozze di Cana tra vita e mondo quando niente si separa dalla propria origine, qui, nel tabernacolo dentro le mura, nel cuore caldo delle 3 porte. Il buio oltre.”

 

Marcello Buttazzo