Le poesie perse tra le carte di Vito Antonio Conte


Marcello Buttazzo su Vito Antonio Conte , “Perse tra le carte. 2010/2020”, Luca Pensa Editore 2020


Poesia

è staccare la spina

tagliare ogni legame

trovare il sé

farne parola

l’unica possibile

Per l’altro da sé

e (comunque- prima)

sempre vivere

 

Il fare poetico ci fa andare a fondo, ci consente di scavare a mani nude nelle zolle marroni della terra, ci fa visitare i meandri più nascosti del nostro sé. Il fare poetico è alacre, produttivo, perché ci permette di mediare le varie sensazioni e ci dà la possibilità di tramutare i sentimenti in parola. Il fare poetico è un medium di compartecipazione, di dialogo, una sintonia di intenti, dal momento che il nostro scrivere può diventare ponte conoscitivo che ci mette in contatto universalmente con l’altro. E così il poeta diviene artefice della propria esistenza e sodale della vita degli altri, che stringe a sé nell’abbraccio più lungo del mondo.

Vito Antonio Conte è uno scrittore raffinato, un poeta meticolosamente umano, che fa trasparire sangue, cuore, nervi, amore diffuso nei suoi scritti. È un autore prolifico, che si dona con tutto il suo fiato, con il suo profondo respiro, senza alcun infingimento.

Bellissima e armonica è la sua nuova raccolta di poesie, dal titolo “Perse tra le carte” (Luca Pensa Editore), appena uscita in libreria (dicembre 2020). Si tratta di liberi versi, redatti con il sangue fluente della sua anima (dall’estate 2010 fino ai nostri giorni). Fino a questa contemporaneità avvilita da un subdolo agente infettivo, da un virus pernicioso e invasivo, che giocoforza ci ha fatto modificare comportamenti sociali e abitudini. Che giorno e notte ci fa piangere vittime.

Il poeta ha la prerogativa di cantare il dolore e la gioia. Il poeta sa piangere tutte le lacrime del mondo. E le sa consolare. Il poeta sa parlare dell’ebbrezza. Questa delicata silloge è un cammino d’una anima tenera, morbida, quella di Vito Antonio. Un’anima che sa provare anche sdegno per le storture di questa vita, manifestandolo, tra l’altro, in versi talvolta corrosivi e irritati. Ma, sostanzialmente, la cifra fondante e portante di “Perse tra le carte” è una leggerezza di espressione, un trasalimento d’amore che erompe come un fiume in piena, un palpito di lucente bellezza. Tutto ciò è nelle corde dell’Autore, che è uomo di sentimento, di cuore, di ragione. Una poesia altamente umana (la sua), una poesia degli affetti più duraturi. Se dovessimo riassumere, molto sommariamente, il procedere di questa silloge, potremmo dire che essa è un percorso di trasporto e di consapevolezza “sul tempo, sui luoghi, sulle stagioni”. Il tempo è quello dell’anima di Vito Antonio Conte, il quale ama il procedere lento, le clessidre pazienti che vagolano con discrezione. Lui vive costantemente la sua quotidianità con passione, dando significato ad ogni azione, ad ogni vissuto. Lui attraversa la vita con lo sguardo desto e abita ogni secondo come fosse l’ultimo. Le stagioni furoreggiano nelle sue vene irruenti di poeta. La primavera, l’estate, l’autunno, l’inverno, di anni diversi, dal 2010 ad oggi, sono scorci di narrazione, sono momenti vergati sul foglio. Momento che non passano, momenti eternati dalla parola del poeta.

E poi ci sono i luoghi. Alcuni incisi a lettere di sangue, a sillabe e vocali d’amore nelle carni vivide di chi conosce pienamente la gratitudine filiale. Uno di questi posti, che per Conte è una sorta di buon ritiro e una Casa dell’anima, è la cosiddetta “Scrasceddha”, che si trova a Collemeto. E che è stata l’abitazione e la campagna dei suoi amati genitori.

Qui il poeta ancora vede il padre (che è trasvolato con la madre verso altri Cieli) mettere a dimora giovani ulivi, vede la madre, armonica ed elegante nei movimenti, nutrirli con secchi d’acqua e gioia. È dolce il poeta quando canta la vita che pullula alla “Scrasceddha”, dove lui ha visto la volpe che attraversa la strada, dove ha giocato con il cane Nino, dove s’è inebriato del viola intenso dei fiori di malva, dei calabroni nero- gialli intorno. E tutt’intono un lunghissimo e benedetto silenzio. Personalmente, alla “Scrascheddha”, ho potuto osservare rose perenni e antichissime e aulentissime sessantennali, piantate dai nonni di Vito Antonio, che ancora oggi fioriscono ad ogni stagione, come carezza di memoria. La forma dei versi è ricercata e, al contempo, essenziale. L’Autore ha letto intensamente, tra l’altro, la grande letteratura americana. Il lirismo e la musicalità nascono vibranti. E, comunque, nella sua esistenza, Conte s’è imbibito di letture, le più disparate.

Come mi piacerebbe

dirti del vento

che spagina

un vecchio albero

di mandorlo in fiore

facendolo nevicare…


Come mi piacerebbe

sprecare il tempo

annusando il cielo

che si muove

nel tardo meriggio

 

Come mi piacerebbe

fermare quel che

non si può

insieme a te

Questi versi di Vito Antonio, per certi tratti, mi ricordano Ercole Ugo D’Andrea, la sua poesia parzialmente crepuscolare, ma soprattutto familiare. Il poeta di Galatone così chiudeva una sua lirica: “I mandorli, tardivi, / che fitta nevicata tra gli ulivi/”. Conte è poeta moderno, perché si sa aprire anche alle felici contaminazioni positive e propositive della musica. Lui è un appassionato e attentissimo ascoltatore di Blues e Jazz e di cantar leggero. Nella silloge “Perse tra le carte”, omaggi vengono fatti a Rino Gaetano, a James Bown, a Enzo Avitabile e Bottari, a Wilson Pickett, agli Oasis, a Piero Ciampi, ad altri. Una breve poesia è un canto per il suo gatto Zimaleto, gatto libero e impertinente. Tanto da far evocare la canzone “Maledetto d’un gatto” dell’infinito Lucio Battisti. Sempre vivo nell’Autore è l’impegno civile, la denuncia di vibrante protesta. La condanna per un mondo antropizzato e artefatto, che gira a vuoto. E sgorga anche fitto il pianto per quelli ulivi torturati dal vento e dalla peste. Versi toccanti Vito Antonio dedica alla moglie Maristella. Per lei scrive i versi più lievi. Per lei, il poeta rapisce il sorriso della luna e glielo dona con stupore. Conte, in “Perse tra le carte”, fa suonare le parole, fa vibrare il tamburo, scuote i pensieri. Questi versi non sono più persi tra le carte: sono venuti alla luce, al mondo. Per mostrare un’anima innamorata, libera, immersa nel flusso eterno della vita.

Marcello Buttazzo