Sul Bardo Vito Antonio Conte ricorda Saturnino Primavera



di Marcello Buttazzo - 

Scruto nel cielo
e già vedo l’autunno,
passano i giorni e torna l’inverno.

Il mare schiaffeggia
nei secoli le rocce;
e cento, mille stradelle
si formano nei sassi.

Sbatte, sbatte il mare,
fino a consumare
le pietre,
e continua in eterno
il suo millenario canto.


Saturnino Primavera, fine ebanista e poeta di Lequile, ha traversato la seconda metà del secolo scorso,con i sogni, le attese, le speranze, le utopie della sua generazione. Lui è deceduto agli inizi del nuovo millennio, nel marzo 2004. Saturnino aveva trasformato la sua falegnameria in una bottega di incontri virtuosi, in una fucina d’arte. Persone di riguardo, come Vittorio Pagano, Marcello Sambati, Ezechiele Leandro, Nino Rollo, Totò Casilli, sono stati suoi compagni abituali. Saturnino è stato ed è un poeta lirico purissimo, di assoluto valore. Un cantore della Natura, degli ulivi contorti e assolati, delle parole d’amore.

A luglio scorso, su “Il Bardo”,fogli di culture, lo scrittore e poeta Vito Antonio Conte ha redatto un vibrante e appassionato ritratto del poeta lequilese. Vito Antonio ci ha donato un ricordo, prima d’ogni cosa, umano di Saturnino. Perché la bellezza umana è la cifra inerente della esistenza accorata di Saturnino, spesa interamente per vezzeggiare ed eternare l’arte.
A un certo punto Vito Antonio Conte scrive: “Poi, una mattina (quella del 21 settembre 2013), sono andato al cimitero di Lequile e l’ho trovato. In una cappella d’una confraternita (non ricordo quale) c’era (e c’è) una lapide che non è una lapide. Ché la lapide è (dal latino lapis) sempre e comunque di pietra. La sua no! Quella di Saturnino è diversa da tutte le altre: è di legno (ché Saturnino era - prima di tutto e oltre tutto - falegname). Gliel’ha costruita il fratello Erasmo. Sulla lapide, sotto la fotografia, nessun epitaffio (che io ricordi), ma due date: 21 aprile 1930 - 24 marzo 2004”.

Saturnino Primavera, in una sua raccolta di versi del 1965, così scrive:


Quando morirò
seppellitemi nella terra di nessuno.

Seppellitemi al crepuscolo,
dove tramonta il sole
perché io possa vederlo in eterno.

Quando morirò seppellite
con me le mie poche cose
che non ho mai avuto;
seppellite
con me
il passato, i miei ricordi.

Seppellitemi lontano,
nella terra di nessuno,
perché nessuno pianga sul mio corpo.

Conserverò un palpito segreto,
perché lo odano
tutti coloro
che resteranno in vita.


Meritoriamente il Comune di Lequile, nel 2006, ha compendiato in un unico volume le tre raccolte pubblicate da Saturnino in vita: “Lequile Poesie” del 1965; “Parole e morte e questo sangue ignorato” del 1965; “Il tempo e la morte” del 1967. Il lessico di Primavera è essenziale, privo di orpelli e di complessità barocche.

Lui è poeta degli ulivi, delle pietre amare, del pianto antico. La terza raccolta del 1967, “Il tempo e la morte”, dedicata all’amato padre, deceduto nel 1966, è molto raffinata, molto più ricercata.

Vito Antonio Conte così s’esprime nel suo saggio: “Questa raccolta (qualitativamente superiore rispetto alle prime due) aumenta il valore di ritmo e musicalità del versificare di Saturnino Primavera, ch’è soprattutto poeta lirico”. La sua poesia è anche del dolore, dell’assenza, della mancanza, della perdita. La morte del padre falegname e suo maestro Vito segnò intimamente il poeta di Lequile. Il suo sublime canto è, come ritiene Vito Antonio Conte, “un’amara preghiera”. Una preghiera solenne, sentitissima (e non aggiungerei né laica, né religiosa), perché il comunista ateo Saturnino era dotato d’una profondissima spiritualità.  I suoi versi vanno letti e assecondati nell’incedere e nel procedere, nel suono, nella magia di assonanze. I suoi versi sono una limpida alchimia di parole, che risuonano come il canto dei centomila violini. Vito Antonio Conte giustamente enfatizza il fatto che Primavera non sia stato molto celebrato. E lui meritava e merita, invece, tutta la nostra attenzione e devozione. Per Conte, “Saturnino Primavera è poeta misconosciuto ai più e colpevolmente ignorato da chi (per altri versi meritoriamente) ha cercato di tracciare un percorso della poesia e dei poeti del Novecento in questa Terra”. Saturnino aveva letto attentamente Pablo Neruda, Federico Garcia Lorca, i grandi poeti italiani del Novecento. Insieme a Marcello Sambati, a Checco Solazzo, aveva dato vita a un piccolo teatro sperimentale, a Lequile, che suscitò molto interesse. I versi di Saturnino meriterebbero, di certo, una divulgazione più diffusa. Andrebbero letti nelle scuole. Lui ha lasciato una traccia vivida d’amore, di splendore, infiniti fiori. Una rosa, i cui petali rosseggianti devono essere colti per il loro intenso effluvio. E deve essere elogiato e ringraziato Vito Antonio Conte, che ha saputo omaggiare con morbidezza un grande autore di questa Terra, un poeta preclaro. Saper rinnovellare la memoria è un compito arduo e imprescindibile, che ci rende donne e uomini contegnosi, figli di questo tempo. La poesia ci consente di meditare sul senso della vita, ci permette di coniugare la realtà naturale con l’essenza della propria esistenza.


Perché? Dal canto del mare
al cadere silenzioso della sera,
al morire delle voci, al silenzio
dei crepuscoli, al grido morto e sepolto,
vivo o assente, o terra, o terra mia,
tana di sorrisi perduti per sempre,
lamento di polvere consumata dal vento.


Marcello Buttazzo