Fotografia/ Patrizia Emma Scialpi, “Restano cure”





Che tipo di attrito ha la memoria di fronte alla fotografia? Può la fotografia preservare memoria?
La gente delle fotografie Gioia Perrone “Quelle cose usate, pentole e padelle dei nonni, cinciscaglie riscaldate da generazioni di mani umane che Rilke celebrava nelle Elegie di Duino come essenziali a un paesaggio umano”, non ci sono più; ormai da tempo tra panorami di ‘mmondezza visiva e stupori da mercatino dell’usato, ci avvaliamo di leggerezza, di fantasmi cartacei,di brandelli di passato portatile, che pesa quanto una piuma. Fin dai suoi albori la fotografia ci ha fornito innanzitutto un inedito specchio, uno shock speculare nel quale poter constatare il passaggio del tempo sui nostri corpi e su quello dei nostri cari; immortaliamo da più di un secolo istanti di vita familiare, congelando in un frammento un concentrato di presente, che pare debba in eterno parlarci al presente, pure essendo passato, consumato, a volte defunto.
Vita e morte, ci insegna Barthes, si mescola in questo mezzo “bizzarro”, traccia inconfutabile di qualcosa che è esistita proprio lì in quello spazio e in quel tempo di fronte all’obbiettivo, eppure così “muta”, irripetibile esistenzialmente. Patrizia Emma Scialpi, giovane e apprezzata illustratrice e pittrice dal tocco emotivo e inquietante, ha presentato per l'edizione 2010 del “Festival del cinema del reale” a Specchia il suo nuovo lavoro “Restano cure” nel quale utilizza vecchie fotografie di parenti, dal bordo ingiallito, prese dal proprio archivio privato, applicandovi il segno pittorico, il suo tocco di ri-cucitura emotiva, o se vogliamo di liberazione di una via altra verso l’immaginario e la memoria personale.
Che tipo di attrito ha la memoria di fronte alla fotografia? Può la fotografia preservare memoria?
A mio avviso è potente pungolo, boa-rettangolo che segna la possibilità di un percorso e le profondità di acque misteriose e poco sicure: la memoria certo, crea legame e comunicazione tra passato e presente, sviluppa narrazioni del sé, ma è facoltà imprevedibile e irrazionale e , in definitiva va dove vuole. Gli studiosi del mezzo non hanno opinioni concordanti: per alcuni la fotografia sarebbe una memoria che “intralcia i ricordi”, che in qualche modo li devierebbe o meglio, li addomesticherebbe. O ancora semplicemente un accumulo, un ossessione dell’occhio, un continuo rimando. C’è che le vicende familiari di tutti sono state sempre scandite e trasformate in piccoli monumenti privati, dalla fotografia. I corpi risorgono, si mescolano, e gli occhi dei nostri cari, come quelli di sconosciuti, ritornano a guardarci, facendoci sentire tutto il carico e tutto il fascino del sentimento della distanza. La vita di qualcuno la cui esistenza ha preceduto di poco la nostra, tiene racchiusa in sé la tensione stessa della Storia: per guardare la storia bisogna esserne esclusi. Anche la fotografia perisce, ce lo dice Barthes, e per i più “sensibili alla luce” e ai giochi ai quali la fotografia invita , risuona come un’ossessione: “La fotografia condivide la sorte della carta (anche nella sua versione digitale); come un organismo vivente, nasce dai granuli d’argento che germinano, fiorisce e subito invecchia attaccata da luce e umidità”.
Così la Scialpi mette le mani su quella che il sociologo Richard Chalfen chiama Gente della polaroid, la gente della fotografia! Il colore, il segno del pennello è come una seconda patina, un estensione tattile ed emotiva, che sembra voglia creare nuovi ponti medianici tra chi guarda e chi è guardato, tra la memoria tracciata e indicale della fotografia e la memoria re-inventata e libera dell’artista. Allora quei corpi ingialliti, fermi a quel giorno, corpi cari, ci ripropongono eternamente una traccia del nostro genoma, come i corpi sconosciuti della gente sconosciuta nelle fotografie, anch’essi comunque legame tra noi e un genoma fotografico collettivo, davanti al quale qualcosa “punge” qualcosa ci chiede di aver cura. (www.granbelblog.wordpress.com)