Viaggio a Finibusterrae


L’utopia del Salento raccontata da Antonio Errico

di Eliana Forcignanò


Non si può scegliere il luogo in cui si nasce, forse, si può scegliere quello in cui si vivrà una volta diventati adulti – si diventa mai adulti o si resta perennemente bambini sulla soglia dello stupore? –, ma quante volte rimani vittima della malia dei luoghi che t’induce a non partire, a guardare il mare con nostalgia, rabbia, rimorso. Sei adirato con te stesso perché non riesci a prendere il largo – la terra nella quale sei nato non ti offre pane né gratificazioni, ma tu continui ad abitarla nella speranza, ogni giorno più fievole, che qualcosa cambi –, però non riesci a liberarti dalle catene dolci della “saudade” che ti tengono avvinto a Finibusterrae come lo chiamava Luigi Corvaglia – senza il dittongo finale – e come lo chiama Antonio Errico, narratore e poeta, maestro della parola capace di forgiare melodie costruite sui ritmi dell’anima.
Un altro libro sul territorio salentino? Sì, si può se a scriverlo è proprio Errico che ci ha donato con la sua penna momenti di puro incanto, da “Angeli Irregolari” pubblicato nel 2002 al bellissimo lavoro “L’ultima caccia di Federico Re” edito nel 2005. Ora, con “Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini” (Manni edizioni, 2007) giunge a noi una summa della passione che unisce l’autore alla sua terra d’origine, una passione che, come ogni autentica passione, non è esente da critica, dalla dichiarazione che si poteva e si può far molto per Finibusterrae, per le persone che vi hanno vissuto e che ancora vi abitano, per la memoria dei poeti, dei letterati, degli intellettuali nati qui e troppo spesso dimenticati dai loro stessi conterranei.
L’oblio – scrive Antonio Errico – non è sempre cattiva cosa: a volte, si può obliare se stessi guardando il mare di Santa Cesarea e pensando a quel tempo mai venuto in cui la principessa Shaharazad raccontava, filava la conocchia e raccontava, scrutando dal suo balcone quella vela che doveva tornare e non ritornò più. Non si possono né si devono tuttavia obliare individui come Luigi Corvaglia, Antonio Verri, Salvatore Toma, Rina Durante che, lottando e scrivendo, aggregando giovani spiriti intorno a loro e scoprendo talenti, hanno fatto la Storia di Finibusterrae. No, non bisogna dimenticare queste persone e, fortunato, chi, come Antonio Errico, le ha conosciute direttamente, ha fatto loro domande, ottenendo ora risposte, ora silenzi che sono tanto più eloquenti delle parole. “Anime accese di poesia, luci senza fonte e senza direzione” chiama l’autore questi personaggi e ha ragione: basti pensare a Rina Durante, quella donna piccola di statura, riccioluta, capace di svegliarsi ogni notte con l’assillo che altri, al suo posto, si accingessero a scrivere il capolavoro, invece – ricorda Antonio Errico – il capolavoro lo scrisse lei, “La Malapianta”, in venti giorni, mentre sua madre moriva in ospedale. O un uomo dello spessore morale di Vittore Fiore: tutta la vita trascorsa a credere in alcune certezze che sembravano “fortezze inviolabili e che a un certo punto lo hanno tradito lasciandogli solo una trama di affetti e memorie”. Il tradimento, la disillusione erano frequenti a Finibusterrae, ma non era la terra a illudere, non erano i contadini, gente semplice e spesso diffidente verso gli uomini di lettere, non era l’architettura barocca, così affascinante e densa di fantastiche irregolarità. Erano la Storia, la Politica – entità macroscopiche e oscure – a ingannare chi ancora vi credeva, chi sperava nella redenzione fino a restarne ogni volta deluso. In alto loco non si curavano di Finibusterrae, dei suoi poeti, dei suoi intellettuali: Rina Durante raccontava a Giovanni Invitto come il Salento l’avesse più volte umiliata e lasciata sola nei suoi progetti di riscatto. Ancora una volta, non il Salento della povera gente, ma quello delle istituzioni cui mancava sempre il denaro per supportare l’ingegno e la creatività.

A questo proposito, non è da trascurare l’intervento di Giovanni Pellegrino, presidente della Provincia di Lecce, alla presentazione del libro organizzata lo scorso lunedì nell’Auditorium del Museo “Sigismondo Castromediano”. Al tavolo della discussione anche Giovanni Invitto, docente dell’Università del Salento e Mario Pastore, dirigente dell’Ufficio Scuola della Provincia. “Rispetto al passato – ha detto il presidente – ho ragione di pensare che la situazione sia cambiata: oggi, noi c’impegniamo in ogni modo per venire incontro alle esigenze della creatività e della cultura. Proprio questa mattina, rispondevo a una lettera del professor Donato Valli che mi chiedeva il consenso per avviare un progetto di ricerca sui poeti del Salento finalizzato alle scuole medie superiori. È giusto e opportuno che i ragazzi conoscano il patrimonio letterario salentino e, per questo, ci affidiamo a esperti come il professor Valli e la sua assistente, professoressa Occhinegro”. Poi il presidente Pellegrino propone di distribuire il libro di Antonio Errico a chi arriva in visita dalle nostre parti: “Questo libro è una lettera d’amore al Salento. L’autore ha voluto scrivere in una nota che le novantanove pagine contenute nel testo sono il risultato di un insieme di articoli apparsi in diverse raccolte e riviste, ma io ritengo che il libro fosse già tutto intero nella mente di Errico e che questi ne abbia tratto, su richiesta degli amici, stralci da pubblicare separatamente”. Antonio Errico annuisce: è andata davvero così, ma lui è un uomo riservato, preferisce scrivere piuttosto che parlare. “Viaggio a Finibusterrae – continua il presidente della Provincia – è un romanzo sul nostro territorio, su uomini e donne che lo hanno abitato nel tempo e hanno contribuito a renderlo così come noi oggi lo conosciamo. È straordinaria la capacità di Errico di tramutare i luoghi fisici che rappresentano la realtà fenomenica in luoghi dell’anima i quali, attraverso il medium della scrittura, svelano il loro lato segreto”.
Quale sia questo lato segreto è dato di saperlo solo a chi decide di avventurarsi nella meravigliosa Finibusterrae, dove non esiste un punto di arrivo né di partenza. Emblema di questa situazione utopica – come la definisce Giovanni Invitto – è Castro, poiché a Castro “non c’è partenza né ritorno. Si sale e si scende. Si risale. Si scende ancora. Si ristà davanti al mare: metafora dell’incognita del vivere”.