Vi presento il Salento (1)

Sibilo lungo
partitura composta in occasione del Festival della Notte della Taranta ed. 2004
[ai padri-madri della poesia salentina ]
versi di Vittorio Bodini, Antonio L. Verri, Ercole Ugo D’Andrea,

redazione a cura di Mauro Marino


Vittorio Bodini

Qui non vorrei vivere dove vivere
Mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
Pigro come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai delle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota di lento carro,
siepe di fichi d’india, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.

da Antonio Verri

Stefan guarda, strabuzza…
Stefan ancora ricerca la pista
sprofonda nei vuoti o in accortissimi piani
sa sbavare, smarrirsi, tumettare
in molti sogni, simulacri tenui,
sottili eccessi,
ritorni, escrescenze d’aria
o sa
di esistere, nascosto e rancoroso
in un gelido sbuffo d’aria
nei poco allegri languori degli anni di piena
- guaffo ragazzo, cresciuto coi lecci
nello stupore del caprifico fecondo
che gonfia promesse di godimenti
ingrassa paure, attese, rimpianti… -


Scalcagno io, per una scrittura

a biffa, perentoria, che ragli, scomodi, stravolga.
Che temperi, che apra a maglio
all’agripastanca, al fico ribotto che rigonfia
una possibile manetta, un’ingolfata
finché la fede c’è, fino al disarmo.
Stefan, vittima di un suono giallognolo,
balla col ventre di una conchiglia
sbotta, sbruffa, sporiglia…
è caduto qui, Stefan, ridicolo nauseato
in questo guscio sonoro
in un caglio di parole birolde ( che morbido inferno!)
dove il tempo non conta ed esiste l’inganno.
Stefan splendido verme
regola e incorpora i reati di carta
lo sgomento di sempre
gli occhi, sul niente, impotenti …

Stefan custodisce la foglia,
regola e accorpa con semplice gesto
con vanto e belluria, con scarto
le veline dei luoghi persi, dei bei gesti:
ronza come ape rossa
muore come preda del tempo grillotalpa
e forse,
vorrebbe cambiar camicia,
esser serpe, semmai
àlica àcaru
àffitu che dà morte
friso oliera acquariccia
ma bruciaglia, alanu
ambone, callaia, arbata
babbione infine.
Forse,
ma non basterebbe

(per altrezza d’arte, beninteso)
assaltare la chiesa, rivoltare
i pagliericci delle madri di Robinia
conoscere una donna di nome Altaire

(famosa docile riottosa)
e un figlio, Alfideo, che si trascina
tutto un paese dietro ai trampoli,
assaporare il sesso
di canditi del Sud dove
esplodono rosse
ragazze mulacchione
e il mattino cola, dall’ argento dei cavoli.

Forse.
Ma forse no!
Forse vorrebbe solamente
smussare i singhiozzi di Adùnia
lasciar tutto passare, sbrecciarsi nel cuore
per introdurvi il mare.


Ercole Ugo D’Andrea

Con la mia Vettura
Verde tabacco nella terra bruma, le grandi masserie sotto la luna,
con la mia vettura e non so
quanti cavalli
vado, di paese in paese per le strade
della terra mia.
E’ già notte, dietro casa
t
orna insonne il giardino
con la menta e il gelsomino;
torna familiare
il mistero delle stelle, del mare.

( Il pozzo bianco )
Ora, ogni giorno, vuole vedere il mare,
la prima stella sul mare.
Ma non sa lasciare il pozzo bianco
nella verde campagna.
Là si distrussero gli avi
di fatiche e di stenti:
una croce d’olio sul pane, olive nere,
interminabili rosari.
La madre, racconta
ma il figlio vuole vedere il mare,
la prima stella sul mare
e lascia il pozzo bianco
al verdeoro della campagna.

( Io non nacqui mai )
Mi chiedi se vi sia qualcosa
che non rabbrividisca
del suo nudo esistere, qualcosa
Neanche la pietra – ti dico –
il vento, si dondola ai rami
il nespolo, di nuovo ha i fiori bianchi
Il gelsomino dura fin dopo i Morti
Poi, compariranno le violette
Già l’autunno cattura altre forme
d’assenza e di dolore
S’ammutinano le mani

di silenzio
La lampada rossa batte ogni notte
su delicate fattezze della madre
Non ditemi del mondo,
io ne sono il racconto freddo, siderale
Non ditemi chi è morto
Io, non nacqui mai.


Vittorio Bodini

Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore nelle botole dei morti.
Ah, dove son le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli d’avventura?