Di una trilogia atipica. Giovanni Santese su Livio Romano


NIENTE DA RIDERE
Marsilio Editore

Altro che ridere. A un certo punto mi veniva da piangere. E più andavo avanti e maggiormente cresceva quel senso di soffocamento che ti attanaglia la gola quando capisci che le cose non miglioreranno affatto. Maledivo il giorno che mi era venuto in mente di proporre NIENTE DA RIDERE per il prossimo laboratorio con i ragazzi, solo perchè dopo Mistandivò con quella sperimentazione al limite del pastiche letterario, e Porto di Mare dove calmati gli spiriti che lo possedevano, l’autore si lanciava in quello che sapeva fare meglio, e cioè il reportage accendendo un faro e munito di lente scandagliava gli ambienti politici, sociali , ambientalisti, osservando come sua consuetudine da un’angolazione sempre scomoda e sovente tenuta nascosta dai più. Che è la sfera privata, con le motivazioni vere che spingono a fare scelte che poi interesseranno tutti noi e che non sempre sono quelle prospettate pubblicamente e degne di onore e rispetto, ma il più delle volte dettate appunto, da interessi personali o alla peggio di qualche buon amico, solo perchè dicevo dopo questi due “ esperimenti” di scrittura immaginavo che l’autore avesse raggiunto un livello di maturità letteraria e di furbizia anche ( che ci vuole per non cadere nelle facili trappole dello schema del romanzo; tempi morti, ripetizione di periodi o periodi troppo lunghi per tenere alta la tensione del lettore, mancanza di tensione, mancanza di un doppio binario che serve a tenere costantemente in gioco il lettore con altre possibilità di sviluppo del romanzo, ecc...) che gli avrebbero permesso di scrivere qualcosa di immortale o al limite che avesse permesso a me di trovare degli spunti utili a parlarne e discuterne con i ragazzi, durante il laboratorio.

Ho smesso di leggerlo. Non avrei potuto. Ero già in difficoltà dopo la prima lettura, e non per le 350 pagine e più, ma perchè dopo averlo letto la seconda volta ho trovato che gli spunti su cui discutere erano aumentati notevolmente, sia come numero che come priorità a parlarne.

Insomma, dovevo dire ai ragazzi che tutto quanto detto sino a quel momento, si, valeva ancora nella sua interezza, ma che però lo avremmo messo da parte perchè c’era del materiale nuovo sul quale discutere. Poi dovevo, per correttezza aggiungere, che si, era nuovo, ma tratto sempre dallo stesso libro. Tenendo presente che a una terza lettura il materiale sarebbe ancora aumentato e naturalmente cambiato, non me la sono sentita, ne di dire loro la prima e neppure la seconda novità.

Ecco, questo è stato il mio approccio con NIENTE DA RIDERE. Questo è il pensiero costante che mi ha accompagnato ( oltre a quelli soliti con cui ormai sono abituato a convivere da tempo e che non dico per pudore e per non allarmarvi inutilmente ) nell’ultimo mese: “ Che faccio ricomincio con il materiale nuovo o sviluppo quello già individuato? – E con le letture mi fermo o continuo all’infinito finché il libro stanco non mi darà più niente di niente?

Ho continuato con quello che avevo, che era gia troppo.

In effetti la storia, al di la del motivetto usato come proemio, che ci indica in effetti quale sarà il filo conduttore della storia, o senz’altro una delle certezze, e cioè l’Alprazolam (ansiolitico ) sin da subito, quando Gregorio Parigino protagonista-narratore della storia, ricoverato mezzo rotto in ospedale dopo un incidente terribile, vede fra tutte le bontà fisiche e intellettuali della moglie Delia, quella che recandosi in ospedale si è ricordata di mettere nella borsetta una stecca di pastiglie per lui, l’Alprazolam, appunto.

Queste sono le prime pagine di NIENTE DA RIDERE e già si sente il ritmo imposto dall’autore che è alto ma non sincopato, veloce ma descrittivo fin nei particolari, e questo dura, per fortuna sua e del lettore, per tutta la stesura del testo.

Quando, dopo la seconda lettura, cercavo l’accendino che si era infilato nelle pile di carteggi che si andavano costituendo man mano sulla mia scrivania, mi si è accesa quella lampadina che per uno scrittore dovrebbe significare: “ho trovato la chiave, la strada giusta!”, in pratica, dopo aver acceso la sigaretta molto lentamente, con la calma di chi sa come procedere d’ora in avanti, pensavo che NIENTE DA RIDERE altro non era che la fine di una TRILOGIA iniziata con MISTANDIVO’, seguita con PORTO DI MARE che raggiungeva l’epilogo con NIENTE DA RIDERE, appunto.

Una trilogia atipica, ma coraggiosa, dove vengono sperimentati tre tipi di linguaggio diversi tra loro, ma che nel risultato (quello cioè, che rimane al lettore alla fine del libro, quel filo prima sottile poi sempre più spesso che lega gli eventi raccontati con quelli immaginati e riportati a se dal lettore, fino a farli propri, e quella sequela infinita di domande a cui il lettore è sottoposto e alle quali sente di dover dare una risposta, anche per conoscere meglio se stesso) diventano un unicum, che comprende (a volerlo dire) il meglio dei primi due.

Sembra cresciuto Livio Romano nella stesura di questo testo (nonostante ne attribuisca il merito, o una buona parte di esso, all’editor, che credo sia Errico Buonanno, o che per lui, insomma), sempre in equilibrio fra tensione e riflessione “passiva”, fra racconto e reportage.

Ecco una delle chiavi altre, di cui bisogna tenere conto; l’amore mai nascosto dell’autore per i reportage, e leggendo i tre testi di quella che io ostinatamente definisco una TRILOGIA cosa colpisce nelle caratteristiche “tecniche” della stesura? Che tutti e tre sono scritti secondo i canoni di un reportage,appunto.

Come si spiegherebbe altrimenti questo vagare incessante attraverso i confini delle miserie umane, delle debolezze, delle nefandezze della periferia dell’anima, quel luogo così scomodo che neanche chi ci abita vuole mai vedere, solo così, con l’impegno civile e sociale, che l’autore a differenza dei suoi reportage “veri” ha voluto, abilmente direi, strutturare sotto forma di romanzo.

Potrei dire anche, a supporto di questa mia tesi, che non è dettata solo dalla musica psichedelica che accompagna la mia scrittura o dal vino buono che la buona amica mia mi ha gentilmente fatto assaggiare, che i personaggi che animavano sia MISTANDIVO’ che PORTO DI MARE a ben guardare tornano a colorare anche la vita di NIENTE DA RIDERE. (una per tutti Teresa, che in Mistandivò era studentessa di legge nel Veneto, in Niente da Ridere è l’Avvocato che cura le innumerevoli vicende giudiziarie di Gregorio Parigino, il protagonista – narratore)

Immagino si sia capito qual è il passo o il tenore del testo, che per profondità di analisi (e farò una pratica che odio, quella cioè del paragone) associo alle Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini, mentre per la tensione che il testo riesce a produrre sul lettore a quel capolavoro che Giuseppe Berto scrisse sul Male Oscuro, anche se in quel caso per i “tecnici” la vera innovazione era la punteggiatura, pressoché assente, dando così al testo un ritmo da crisi di panico, appunto.

Potrei inoltre dirvi, di come leggendo il libro mi sia scoperto a ridere, perchè la vena ironica con cui Livio Romano farcisce anche i drammi o le cose maledettamente serie, fa si che tutto appaia risolvibile o di poco conto,e questo nelle persone che si perdono per un nonnulla o per quelle che davvero non sanno come uscirne, può significare rinverdire quel vecchio detto: “prendila con filosofia”

Anche se Gregorio Parigino più che con filosofia la prende per bocca (la pastiglia), per noi va bene lo stesso.

Per via dei particolari così ben definiti, fin nei dettagli, ho il sospetto che l’autore abbia contattato (e non mi è dato sapere se prima o dopo la stesura del testo) un regista. Uno di quelli che da una sceneggiatura tirano fuori un film, insomma.

Avete visto com’è facile scrivere di parole quando le stesse sono ordinate in modo che le puoi far diventare quello che vuoi?

Io sono già arrivato “che ne farei un film”, immaginate voi cosa potreste farci, con queste parole.

Intanto cominciate a procurarvi il libro e leggetelo.

Il resto verrà da se, se dovrà venire.

O aspettavate che vi raccontassi io la storia. Magari per sommi capi.

Per poi dire d’averlo letto, il libro. Magari farci anche la critica, quella vera, seria.

Ma daiiii.

Giovanni Santese