L’altra immagine umana nei versi di Imperiale


di Elio Ria - 

Passano i tempi e si rinnovano le esigenze letterarie dei poeti. Il XXI secolo è il secolo della sfida dei poeti, almeno di coloro che sentano di esserlo per davvero. Cosa dovrebbero dirci? Come? Per fare una brutta poesia basta poco. Per fare la poesia ci vuole l’ingegno, la versatilità dell’immaginazione, la dimestichezza con le parole, la capacità di osservare, la propensione al silenzio e alla riflessione, il coraggio di dire, la forza di assumere la complessità delle cose in un ‘non tempo’. Il poeta oggi deve ricercare nuove forme di comunicazioni poetiche, distaccandosi dalle banalità, rendere utile l’inutile.

La copertina del libro di Luca Imperiale nella collana Scritture di Spagine

Ho avuto fra le mani la copiosa raccolta poetica di Luca Imperiale, dal titolo Il balordo, Spagine editore, Lecce 2022. Balordo? Mi è sembrato un termine del passato, ammuffito nelle pagine dei libri di un tempo. Mi sono ricreduto: riprendere e riadattare è sempre affascinante, soprattutto in ambito poetico. Ebbene, chi è il balordo? Non ha nessun valore qui la definizione del dizionario. Non servirebbe. È forse quel ‘piccolo stronzetto da evitare’, quell’individuo che ti smonta le certezze e ti fa sentire male dentro? Potrebbe? Imperiale su quell’individuo – il balordo, punta i piedi, anzi la penna al solo fine di descriverci le cose scomode, i dubbi necessari per fare una verità, le apparenze e le ipocrisie. La verità per l’autore non è altro che il rovescio del dubbio. Il dubbio si certifica, la verità è sempre in itinere, pare voglia dirci l’autore. Ritorniamo al balordo. Costui è dappertutto nelle cose della vita, spacciandosi come l’immagine autentica dell’uomo.

Allora, la poesia s’innalza al di sopra delle cerimonie d’inutilità, seppure utili nella pratica dell’esistenza umana, e distoglie lo sguardo dalla centralità per focalizzarsi sui dettagli, sulle cose che stanno in basso, dove gli occhi disdegnano la vista. Imperiale consapevole dei pericoli in cui si incappa parlando di cose sgradevoli, lo fa invece con chiarezza di linguaggio, ‘toccando con mano’ le situazioni meno gradevoli, sporche, intinte nel malaffare, materiale per i benpensanti, ossia per coloro che, pensando di ben pensare, non pensano e non comprendono, sottostando all’ipocrisia.

Il balordo è in ogni poesia di Imperiale: è lui il filo conduttore della trama poetica che se ne vuole derivare e a rappresentare qualcosa di diversamente comodo, qualcosa di cui è data importanza e viene fatta emergere dalle quotidianità soffocate dalla pigrizia umana di guardare sempre là dove gli occhi hanno un proprio rendiconto. Il poeta deve fare esperienza di ciò che accade e deve approfondire, conoscere, snodare dubbi, maturare nuove idee. Porre in alto l’attenzione per allertare, suonare la sveglia per un nuovo e indimenticabile tramonto. Imperiale entra nella propria ombra e vi rimane ‘persino quando il fuoco è andato via’; lo alimenta quel fuoco con le provocazioni e l’ironia.

Il poeta non guardi ai propri interessi, non ricami parole e non usi merletti di rime, faccia il poeta del proprio tempo. Mi pare che in Imperiale ci siano aspetti letterari che potrebbero connotare una poetica che voglia riprendersi la vita in cui non viene esaltata l’apparenza, la transitorietà, il consumo famelico delle cose effimere, ma ci siano invece assenze e presenze, moltiplicazioni di infiniti, addizioni di cose buone, divisioni delle complessità, ma soprattutto non si dà importanza soltanto ai ‘numeri primi’. In fondo, la cultura è una formazione dell’attenzione: una ricerca senza cuore ed emozioni è un fallimento scientifico ed umano.

La poesia di Imperiale non si conclude in nulla, volutamente. Il gioco, o se vogliamo l’intento, è di rendere i versi come lame taglienti della nostra coscienza, del nostro modus operandi, e non è poco.

E poi c’è questa passione e ammirazione per Dostoevskij, quindi la figura dell’uomo ideale: «L’immagine dell’uomo e la sua voce estranea all’autore è il criterio ideologico ultimo per Dostoevskij: non la fede nelle sue convinzioni né la veracità delle convinzioni stesse, astrattamente prese, ma la fedeltà all’autorevole immagine dell’uomo»[1].

 

Elio Ria



[1] M. Bacttin, Dostoevskij. Poetica e stilistica.