Della vita e della poesia di Saturnino Primavera


 di Vito Antonio Conte - 

Diversi anni addietro, quando (purtroppo) non potevo più incontrarlo, sono (letteralmente) incorso in qualcosa che lo riguardava… Da lì mi sono interessato a lui (all’uomo, prima d’ogni altra sua avventura) e al suo mondo. Già il (solo) nome evocava (in me) tutt’un altro universo (nomen omen).

Come una stagione. La più bella (almeno per i più). Quella della rinascita. Quella che (etimologicamente) dona splendore. E, restando in tema, l’albedo (propriamente una delle fasi dell’opera alchemica).

Come un pianeta. Citato da Dante Alighieri nel ventunesimo canto del Paradiso: a simboleggiare meditazione e contemplazione. Già di per sé, vieppiù con i suoi anelli, un infinito moltiplicarsi di arcobaleni.

Per i romani dell’Impero il dio dell’agricoltura. Come un dio contadino. Un dio malinconico, triste, portato alla fantasticheria, ma anche forte, tenace, capace di fecondare col suo sangue parole e farle diventare poesia:

SATURNINO PRIMAVERA.

Non conoscevo niente di lui. Eppure eravamo vicinissimi. Avevamo (almeno) un amico in comune. Respiravamo la stessa aria. Avevo incontrato, non sapendolo, sua figlia (per motivi del tutto casuali e distanti dalla poesia). Sino a quel punto soltanto parole. Quelle del suo passaggio su questa terra. Sulla sua Terra.

Quelle che ha cercato, inseguito e fermato per dire di sé, dell’interno e dell’intorno.
Quelle che, a un certo punto, ha perduto.
Quelle ritrovate e poi ancora (credute) svanite.
Quelle con cui ha combattuto il tempo.
Quelle con cui ha immortalato il suo Tempo.
Quelle che gli hanno regalato uno spicchio d’immortalità.

E le ho cercate. Dappertutto le ho cercate. Molte le ho trovate. D’altre non ho osato chiedere. Ché non so chiedere…

Poi, una mattina (quella del 21 settembre 2013), sono andato al cimitero di Lequile e l’ho trovato. In una cappella d’una confraternita (non ricordo quale) c’era (e c’è) una lapide che non è una lapide. Ché la lapide è (dal latino lapis) sempre e comunque di pietra… La sua no! Quella di Saturnino è diversa da tutte le altre: è di legno (ché Saturnino era – prima di tutto e oltre tutto – falegname). Gliel’ha costruita il fratello Erasmo, com’ebbe a riferirmi lo stesso quando lo incontrai a casa sua nell’autunno di sette anni fa. Sulla lapide, sotto la sua fotografia, nessun epitaffio (che io ricordi), ma due date: 21 aprile 1930 – 24 marzo 2014. La sua fotografia. Quel volto. La sua testa riccioluta. Vigile, presente, eppur assorto nei suoi pensieri. Nessuna pietra più. Fin troppe quelle amate e sopportate in vita. Ora soltanto profumo d’essenza di legno, di fiori e d’infinito.

Un’altra fotografia: quella contenuta nel libro (Saturnino Primavera – Poesie) commemorativo, pubblicato (senza ISBN, dopo due anni dalla morte) meritoriamente dal Comune di Lequile. L’omaggio resogli dalla terra in cui è nato e vissuto è l’unica testimonianza che contiene tutte le pubblicazioni di Saturnino Primavera in vita:

- la prima vide la luce nel marzo del 1965: è una raccolta collettanea, titolata Lequile Poesie, a cura d’un Circolo Culturale locale;

- la seconda, sempre nell’anno 1965 (nel mese di giugno), fu stampata presso la Tipografia Mele di Lequile, in proprio (insieme a Marcello Sambati, nel senso che contiene liriche di entrambi), reca il titolo Parole e morte, questo sangue ignorato;

- la terza e ultima raccolta di versi fu pubblicata nel 1967 (ancora dalla Tipografia Mele di Lequile), circa un anno dopo la morte dell’amatissimo padre (avvenuta nel maggio 1966), col titolo Il tempo e la morte.

Il libro (Saturnino Primavera - Poesie), mi è stato procurato dall’amico Emidio Buttazzo.

Un’altra fotografia, dicevo: Saturnino ritratto in un’età più giovane: è nella sua bottega da falegname (che già era stata di suo padre), la gamba destra appoggiata s’un cavalletto, in una posa plastica teatrale e danzante insieme, l’espressione del viso tesa e concentrata a decifrare dall’informe legno l’anima dandole corpo e fiato (come Carlo Lorenzini – in arte Collodi – ebbe a fare col protagonista del suo più celebre romanzo…). Ché, immagino, così nascessero anche i suoi versi… Ché, è certo, lì nascevano le sue passioni, poi diventate (anche) poesia; lì nella bottega artigiana dove, in fine, ha creato opere di raffinata ebanisteria. Lì, dove già suo padre, uomo d’altri tempi e d’alti valori, amava eticamente il suo lavoro, discuteva del sociale, rendeva parole di forte impegno civile e fermava (anch’egli) liberi versi. Lì, dove, attigua alla falegnameria, vi era la casa abitata dalla sua famiglia d’origine. Lì, dove, d’estate suo nonno passava a prenderlo per la vacanza in campagna. L’adorata campagna, dove faceva la guardia al vigneto, in quella terra che gli regalava sole infuocato e ombra rassicurante, notti di buio e di cieli infiniti d’infinite stelle.

E ancora lì, in quella bottega, dove sarebbero passati Ezechiele Leandro, Nino Rollo, Totò Casilli, Marcello Sambati, Vittorio Pagano e altri – pochi – amici. Lì, dove, tra le diverse essenze di legno, nel profumo della segatura e della colla vinilica o di quella di resina alifatica, salivano le voci di Neruda e Garcia Lorca, e dell’ottimo e fine artigiano son rimaste scolpite e intarsiate anche le sue parole di vita e di morte, di speranze e di delusione, di sogni e di incubi, di voli e di cadute.

Parole evanescenti perdute come alcool nell’aria. Sputate in irripetibili contumelie. Inchiostrate in potentissimi versi: delicati come fiori selvatici, pesanti come macigni. Lì, dove tutto è iniziato. Lì, dove scorreva la vita. Lì, dove, a un certo punto, come pellicola che si srotola, è passato il ricordo di tutta la perduta vita. Lì, dove tutto è finito. Lì, dove ancora (traverso il figlio Ivan) ogni colore è testimone d’ogni sua stagione. Saturnino Primavera di stagioni ne ha conosciute. Lui, le stagioni, con l’entusiasmo di chi intraprende un nuovo viaggio, le ha attraversate. Tutte. Belle e brutte. Dolci e amare. Splendide e ingannevoli. Spendendosi sempre interamente. Trattenendo sempre un po’ d’ogni esperienza. Rammentando sempre ogni cosa d’ogni viaggio, d’ogni mutamento del tempo. Sono state le stagioni e, soprattutto, gli uomini a dimenticarsi di lui. Alcuni. Non tutti. Altri ignorano tutt’oggi chi sia…

 

Saturnino Primavera ha declinato la sua esistenza traverso il suo essere artista: ha vissuto la favola agreste insieme a suo nonno...

Quella dannunziana a Pescara insieme a Marcello Sambati...

Quella teatrale, prima a Lequile (col Gruppo P): un falegname insieme (come scriverà Gino Santoro) a un barbiere (Checco Solazzo) e uno studente (Marcello Sambati); esperienza quella che verrà ricordata come spettacolo di protesta in un lavoro (OISTROS teatro in cerca di teatro) di Benedicta Emanuela Giulio. Poi, a Roma e, pochi anni prima di volare nel tramonto di stelle (amato e maledetto in vita), a Napoli (teatro San Carlo, 2000) e Mesagne (Castello Svevo, 2001). A Roma, dicevo…

Roma è anche Pier Paolo Pasolini. L’incontro di Saturnino Primavera con Pier Paolo Pasolini e la partecipazione al film Il fiore delle Mille e una notte (1974) sa di leggenda. È storia che Pasolini venne a Lecce e a Calimera per cercare doppiatori per il film in quanto riteneva che l’accento salentino somigliasse alla lingua araba. È storia che le audizioni a Lecce furono svolte al Teatro Apollo. Quel giorno, Saturnino Primavera e Checco Solazzo (dal quale ho appreso l’episodio una sera di qualche anno addietro, dopo un reading al Fondo Verri di Lecce…), si recano al Teatro Apollo per vedere Pasolini… A un certo punto, Saturnino chiede la parola, improvvisa un pezzo e, nel clamore e nell’incredulità dei più del momento…, Pasolini saluta e congeda gli astanti: aveva trovato la voce che cercava!

Quella poetica, circoscritta (quanto alle pubblicazioni) all’arco temporale su ricordato, ma di cui ha permeato ogni suo respiro e, per quel che posso notare (senza essere un critico…), destinata a restare imperitura.

Nella prima raccolta (Lequile – Poesie) troviamo una serie infinita d’interrogativi, versi (anche molto brevi) seguiti dall’interrogativo cui (spesso) segue la reiterazione delle domande, che (altrettanto spesso) non hanno risposte: è il tipico poetare del romanticismo ottocentesco a sfondo esistenziale (Cfr. certa poesia di Leopardi e di Pascoli), ma in Saturnino Primavera più che l’evocazione d’un senso di mistero, galleggiante nel vuoto dei giorni, c’è l’espressione carnale della stanchezza (più niente mi porterà / sulla terra mia), della disillusione (l’estasi vive un attimo / un dolore dura una vita), dell’oblio (vorrei tanto / dimenticare il passato / dimenticare il mio / soffrire / dimenticare di aver amato / e perduto l’amore), che si sostanziano in vane lacrime (è inutile il pianto / se non resta nulla su cui piangere) e sangue a testimoniare (il deserto delle mie sconfitte), il dolore per un lamento mortale o una tristezza che giunge in un modo qualunque quando l’anelito è a ben altro (voglio che giungano solo / canti celesti).

La seconda raccolta poetica (Parole E Morte E Questo Sangue Ignorato) è un grido vivo maledetto e disperato rivolto alle pietre, al sole che muore, alla notte, alla luna. Un grido che si leva invano. Un grido che gronda sangue. Sangue versato inutilmente (parole morte e parole / era il canto della luna / e questo sangue ignorato). E silenzio. Silenzio. E ancora silenzio trattenendo (un brivido di vita), sempre e comunque, una narrazione.

Il Tempo E La Morte è la terza e ultima raccolta di poesie di Saturnino Primavera; come già notato infra si tratta di una silloge pubblicata dopo circa un anno dalla morte del padre e a lui interamente (…) volta! La dichiarazione poetica de Il Tempo E La Morte è chiaramente espressa sin da subito e risulta evidente nei tre versi riportati nella prima di copertina: Voglio che sia duro il sonno / che sia curvo che sia fragile / come pietra bianca a ponente. Sono ancora presenti i temi noti, quelli trattati nelle precedenti raccolte, ma qui fanno da sfondo all’argomento principale, ch’è il complesso universo della perdita, in tutte le sue implicazioni. Anche il lessico è quello che ha caratterizzato la pregressa scrittura di Saturnino Primavera (pulita, elementare – sì chiara -, poco avvezza a chimeriche ricerche sperimentaliste, senza disdegnare l’alchimia dei lemmi - moderni e arcaici -, libera da rigidi schemi metrici, votata - quasi teatralmente - all’oralità e alle conseguenze - in termini di impatto sull’ascoltatore - della poesia detta. Meno ermetica della precedente produzione (Quasimodo è stato uno degli autori che Saturnino ha sicuramente letto…), questa raccolta (qualitativamente superiore rispetto alle prime due) aumenta il valore di ritmo e musicalità del versificare di Saturnino Primavera, ch’è soprattutto poeta lirico.

Ma ora non leggete più quel che io scrivo, abbandonate le mie parole, lasciate andare quel che ho cennato a mo’ di stimolo per conoscere Saturnino Primavera, leggete quel che lui ha scritto. Leggete i suoi versi, pensando a quel che mi hanno detto di lui Stefania (sua figlia) e Claudio (il compagno di Stefania) quel 18 novembre 2013… Leggete tenendo conto che Saturnino era un gran castimatore, ma anche la peggior contumelia, il più crudo improperio, detti da lui, non suonavano male, ché aveva un modo poetico-teatrale di bestemmiare… Leggete e tenete presente ch’era comunista convinto, ateo e viveva d’artista (ché era un artista), con un amore viscerale per il teatro e per la verità. Leggete, ma non prima d’aver accordato il mondo d’intorno col silenzio.

Silenzio: 

Trenta Settembre 

Ecco la luna in croce / per le strade bianche / pietre rovesciate e corna di grillo / e solo la morte col ventre / gravido di tamburi / batte sulle pietre e sulle ossa. / Io voglio che oggi guardiate / gli occhi all’atto del silenzio / io voglio vedere piegarsi le dita / sul profilo del sepolcro. / Guardate. Il sangue di mio padre / si riversa in una conca di corallo / e scorre totale la foschia / in un cimitero senza croci. / Suono di ferro / nei calici colmi. / Io voglio che guardate questo sangue / che va cantando sollevando in alto / il trionfo del silenzio / io voglio vedere il vostro sguardo / che si sgretola e si disorienta / io voglio vedere le mani / che nascondono il grido sul viso confuso. / Non copritevi gli occhi con le foglie di fico / voglio che guardiate la fronte nuda / come l’aia appesa ad un macigno d’inverno / voglio vedere piangere gli uomini / sul suo ventre smarrito / e non sudari di preghiere. / Non voglio vedere oggi apostoli / con le dita in alto che urlano misericordia / non voglio uomini impazziti / su scale di un trono di croci. / Oggi voglio vedere uomini / che piangono su questa pietra / poiché la pietra ne coglie il sonno e le parole / e nella sua morte trattiene il fuoco e il respiro / e becca gli occhi e le labbra / e fa della fronte una pietra. / Io voglio vedere oggi piangere gli uomini / sul petto di mio padre / voglio mani di uomini sulla sua fronte / sul suo ventre e non uncini / desolati appesi al suo sepolcro.

Adesso prendete un respiro, poi continuate a leggere:

C’erano tutti 

Io brucio il legno della croce. / È bugiarda la preghiera del falso apostolo. / Passarono cappuccini disperati / Disperati processarono nella notte Giuda / E Giuda non c’era. / Le mani erano una cattedra / vuota di misericordia. / Io così limo i giorni e l’ultimo / oceano nella notte. / Ecco il veleno della vendetta / ecco la luna assurda inchiodata / all’ultima stella / ecco l’ultima croce / sulla sfera pende l’ultima rondine. / Già spalancata la feroce bocca / Sognasti l’arena e il sangue ti uccise / intorno ad un olivo senza mura / geme triste un concerto / gran sognatore. / Manovra un mulo stanco di trascinare l’aratro. / Dipingere capre su vasi di terra / Per fare di te una cosa eterna.

Ora perpetuate quel silenzio.

Silenzio.

Rileggete con l’attenzione propria d’un rito: sentirete deflagrare i versi, sarà come ascoltare la sua voce (…), li sentirete evocare un dolore profondo, il più recondito dei dolori, il lancinante dolore dell’assenza, l’incolmabile dolore della mancanza, l’insostenibile dolore della perdita…, ma con la forza furente di chi – disilluso ma vivo – lo urla al cielo inclemente, lo grida al mondo ignorante, lo sbatte in faccia al presente spietato. E lo fa con una potenza come soltanto il senso del più puro amore può, come unicamente quel che sale inesorabilmente da ventre cuore e mente può, come paradossalmente nient’altro che un’amara preghiera può! Personalmente è la raccolta che amo di più. Non a caso avverto l’influenza d’un altro grande di questa terra in questi versi, quella di Vittorio Pagano.

È un azzardo?

La vita è un azzardo!

Questo e molto altro è Saturnino Primavera.

Si dice che vi sia (sua) poesia inedita…

Forse ne farò altre parole.

Forse.

Per intanto, leggete questa: Coglierò fiori di campo. / Li coglierò nella notte / perché conservino la rugiada / perché siano colorati di luna. / Li coglierò col vento / perché t’accarezzino. / E fuggendo nel buio ti cercherò.

Si tratta d’una poesia inedita pubblicata, a mo’ d’esergo, sul libro di Marcello Buttazzo (che, più volte, ha omaggiato Saturnino Primavera) Di Rosso Tormento (Calcangeli Edizioni, 2008).

Come ho di già fatto cenno, Saturnino Primavera è poeta misconosciuto ai più e colpevolmente ignorato da chi (per altri versi meritoriamente) ha cercato di tracciare un percorso della poesia e dei poeti del novecento in questa Terra (ricordo, restando solo alle ultime pubblicazioni, per quel che mi consta, A Sud del Sud dei Santi – a cura di Michelangelo Zizzi, Lietocolle, 2013 - e Dizionario Enciclopedico dei Salentini – a cura di Carlo Stasi, Edizioni del Grifo, 2018).

Se ne sono occupati, invece, a vario titolo, Marcello Sambati, Totò Casilli, Maurizio Morello, Marcello Buttazzo (a più riprese e, da ultimo, su Salento Poesia), Francesco Forlani (su Nazione Indiana, 20.3.2007).

Di quel che ignoro, nessuno è responsabile, se non io stesso.

Mentre scrivevo questo breve saggio, ho ascoltato: Ludovico Einaudi (Divenire), J.J. Cale (To Tulsa And Back), Gustav Mahler (Simphony No. 1 in D Major – Titan), Ferretti – Sparagna (Litania), Ivano Fossati (Ho sognato una strada), e poi Ben Harper (Give Till It’s Gone), Miles Davis (Greatest Hits), Opa Cupa (Hotel Albania), e ancora Radiohead (Creep), Billie Holiday (Summertime) e altri (tanti) che dimentico (ché anch’io dimentico).

Lecce, 10 giugno 2020.

Vito Antonio Conte