Su “Toto corde”(La Vita Felice) di Maria Grazia Palazzo
di Marcello Buttazzo -
Il poeta scandaglia a fondo i propri
vissuti e quelli degli altri, scende nelle viscere della terra, tesse canestri
di parole per far riverberare la memoria, costruisce ponti conoscitivi, facendo
tralucere lampi d’eterno. Il poeta traversa pazientemente il proprio trambusto
interiore, sprofonda a piedi nudi negli abissi più fondi, per riemergere con
uno splendore nel cuore, collegando embrioni di particolare con lapislazzuli di
universale. Il poeta è un uomo, è una donna spirituale. Il poeta è natura finita
che non conosce termine. È sostanza che si perpetua oltre lo stretto giardino.
Maria Grazia Palazzo, avvocatessa nata a Martina Franca, con una predilezione
per i diritti umani, torna alla poesia con una nuova pubblicazione, “Toto
corde”, appena uscita per La Vita Felice, Milano.
In copertina, un’opera
stupenda e immaginifica del figlio adolescente Amit, “Albero di primavera”, una
elaborazione fotografica di acrilico su tela.
Maria Grazia Palazzo è un’attenta
tessitrice di storie, di vicende. Lei si concentra sul quotidiano, sul fluire
di eventi, come una meticolosa analista sviscera l’inconosciuto. E con una
lente d’ingrandimento ci mostra ciò che di solito sfugge a una sommaria
osservazione. Lei si dona alla maestra poesia, che è pacificatoria e permette di
risolvere il conflitto, talvolta, in una visione serafica. “Toto corde”, con
tutto il cuore, l’Autrice regala bagliori di versi, che si succedono con un
lessico piano ed elegante. La parola poetica è carne vibratile d’amore. Sul
foglio compaiono spaziature allargate, che danno fiato, respiro di suoni. E le
assonanze e le dissonanze creano un concerto di assoluta bellezza. In un’era
postcapitalistica, tendente a massimizzare i profitti di certuni, a far strame
dei più deboli, la poesia può assolvere ad un compito primario di denuncia e di
messaggera d’amore. E proprio l’amore è il collante supremo che produce
connessioni misteriose, fili logici lessicali, che possono decodificare il
castello dell’invisibile e dell’indicibile.
In “Toto corde”, in vari punti,
possiamo leggere anche qualche verso di Ryokan Doigu, monaco itinerante
giapponese, uno dei poeti più apprezzati di questa tradizione. E ancora qualche
verso di Ishida Hakyo, di Yosa Buson. E un delizioso haiku di Andrea Zanzotto.
La poesia di Maria Grazia Palazzo non si presta alle asserzioni standardizzate,
alle definizioni senza scampo. La sua è poesia ad ampio spettro, d’amore e, al
contempo, civile. È poesia alta, redatta con un registro ricercato, che affonda
scaturigini nella formazione classica dell’Autrice. Leggere i versi di “Toto
corde” ad alta voce, con le dovute pause, è un esercizio d’apprendimento
entusiasmante. S’apprezza la musicalità del procedere, che dà un lirismo
raffinato alle parole, mai scontato, ma inedito. Si ritrovano neologismi, che
stupiscono per l’ardimento delle trovate. A volte, ci dondoliamo:
Nodi da sciogliere, (r)esistenze
nel centro, di fili sul tronco
gioco labirinto in cerca di un volo
disseminazione di abbracci, - crescendo
–
in un profumo denso di limone, di
arancio,
a guardia dell’antica casa suoni
d’infanzia.
Siamo qui, raccolti, caduti
in un palmo di mano,
in un sorriso.
E ancora come non respirare a pieni polmoni la soavità di versi siffati:
Maremadre, benedetta vita alba
che trabocca di nostalgia
di sguardi e di carezza.
Se dovessimo fare, comunque, una notazione incontrovertibile, potremmo dire che troviamo al cospetto d’una poesia del quotidiano, che ovviamente mira all’universale.
“Bisogna ripartire
da un caffè settimanale”. Bisogna farsi rapire da un canto di bambini, dal
balzo di felini, dall’acciambellarsi di cani. Sentire il silenzio di settembre,
il calore impertinente sulla pelle. “E amare, amare la terra, l’acqua e
l’ombra, anche nel dolore”. La terra, questa contrada rosso sangue, che
accoglie tutti gli esseri umani.
In “Toto corde” l’anelito dell’Autrice, in
certi passi, si fa marcatamente canto civile. Maria Grazia con la sua precipua
umanità innalza inni agli ultimi della terra, ai diseredati, agli sconfitti, ai
senza voce, messi ai margini dall’opulenta società odierna. “Immagino così gli
ultimi, nell’ora decisiva fiorire senza spine”.
Un altro tassello, che è asse
portante del suo poetare, è la lotta per l’emancipazione femminile. E questo
nucleo era stato sviscerato ampiamente nella precedente raccolta “Andromeda”.
Certo, la figurazione del quotidiano è prevalente. In alcune poesie, Maria
Grazia rappresenta la devastazione dell’ambiente. Questo sofferente ecosistema
terra sporcato dalla prepotente mano antropica dell’uomo. Risuona la condanna
morale verso chi senza rimorsi di coscienza ha permesso il diffondersi di
polveri rosse di fabbrica e di vapore di malattia e di morte. Come non
condannare un considerevole pacchetto di omissioni, un capitale di risorse
utilizzate male, collezioni di sprechi? Il grido per le nostre miserie umane si
alza fortemente:
Siamo all’abc di una guerra eterna
ingaggiata con la scienza elementare,
l’arte di governare se stessi, il mondo,
il pianeta. Siamo diventati stranieri
tra noi, miseri con la madre terra.
Non sfuggono a Maria Grazia gli incendi della foresta amazzonica, in Alaska, in Groenlandia, in Siberia. E siamo tutti responsabili di questo sfacelo: “Siamo dentro un’apocalissi fredda/e noi mandanti sordo ciechi/”. Personalmente, ho amato questa raccolta e ho molto apprezzato la repulsa dell’Autrice per le degenerazioni del libero mercato. E l’avversione verso uno scientismo spinto allo stremo, per una genetica del consumo rapido (per pochi spiriti possidenti), che pretenderebbe di programmare e predefinire figli e figlie, il sesso, il colore degli occhi e dei capelli. Poesia, quella di Maria Grazia, contro l’uso irresponsabile delle risorse minerali. E l’urlo dei poveri si fa lancinante e degno d’un caloroso abbraccio. Una raccolta “Toto corde” politicamente attuale, contro la deriva populistica: “La scatola della TV ripete su ogni frequenza/di salvarci dallo straniero/”. Versi contro i sopraffattori, contro i tecnocrati della guerra, contro i padroni: “I padroni si somigliano per quella faccia perversa/ del potere dedicato al sacrificio altrui/”. La memoria gioca un ruolo preminente nel fiorire di situazioni. “Siamo parte d’una stessa materia vivente, e tutti destinati a scomparire ma a permanere nella memoria di altri”, scrive l’Autrice nella nota finale. Poesia d’amore e poesia civile, quella di Maria Grazia Palazzo. Di certo, grande poesia:
Vivere a Sud è avere a che fare
con l’oblio della morte. Il passo
si arresta ipnotizzato dal verde, dal
bianco, dal blu.
Vivere a Sud è attraversare i campi
Elisi senza atto finale
e il morire è rimandato all’ultimo
fiato…
Marcello Buttazzo