"Un ulivo a Milano" di Giuseppe Semeraro



Giuseppe Semeraro
Un ulivo a Milano

Salve, buongiorno, mi presento
sono un ulivo di Milano.

Mi spiego meglio:
in verità non sono nato a Milano
mi ci hanno solo trapiantato.
Mi strapparono dalla mia terra dieci anni fa
alla giovane età di centoventisette anni
mi strapparono via come un filo d'erba
come si tira via un fiore di campagna.
Difficile descrivere quel dolore
non ci riesce nessuna parola
ed è meglio a volte un sorriso
per asciugare le lacrime sul viso.
Allora non vedevo chiara la mia condanna
al massimo mi aspettavo di finire in un vivaio
e mi vedevo nella tomba di un vaso
o dietro i muri alti di una villa
e non immaginavo il dramma del mio caso.
Fatto sta che da allora vivo tutto solo
al sedicesimo piano di un attico a Milano.


Ho bestemmiato tutto il repertorio,
tutti i santi del rosario
i beati e le madonne
i martiri e gli angeli
ho bestemiato i morti
ma soprattutto i vivi.
Ho maledetto gli architetti del nuovo
i santoni del design e dell'arredo urbano
i guru del verde in città e pure sti minchia di giardini verticali.
All'inizio, quando arrivai a Milano, volevo morire
volevo farla finita, volevo togliermi la vita
e la cosa più assurda è che
abitando al sedicesimo piano di un attico a Milano
avevo la morte a portata di mano.
Ma come spesso accade
la paura è più forte del coraggio
ci spaventa più l'idea del dopo
che la miseria del presente
così per paura sopporto questo affronto
e sopravvivo nel timore
sapendo di morire lentamente.
Quando mi strapparono con tutte le radici
lo fecero di notte sotto la luna d'aprile.
Il viaggio fu molto duro, credevo di morire
di finire come legna in qualche pizzeria
o tra le lame di qualche segheria
scusatemi la rima ma non è colpa mia
lo faccio solo per alleggerire
con questo dramma non vi voglio appesantire.
All'inizio mi tennero nascosto
senza luce e senza sole
sotto la volta di un capannone,
poi un giorno mi legarono un'imbracatura,
mi misero a testa in giù
e mi issarono sulla cima di un gru,
scusate la rima ma non lo faccio più,
con un filo d'acciaio mi tirarono su
fino al sedicesimo piano
di un attico a Milano.
Con tutta quell'altezza venivano le vertigini
credevo di non farcela
ma per fortuna s'affacciava maggio
e con la luce della prima estate
superai anche questo oltraggio
vinsi solitudine, altitudine e pure latitudine
e alla mia condizione ci feci l'abitudine.
Certo non posso negare,
la mia terra mi mancava
mi mancava la cantica delle cicale
le carezze del maestrale
l'umido sale portato dal mare,
mi mancava la giostra delle lucertole sul tronco
la tana della volpe sotto le radici
i salti pazzi del pettirosso
ma soprattutto mi mancavano i miei fratelli.
Li immaginavo già vestiti del frutto nuovo
e intorno a loro sentivo in lontananza
le voci dei contadini, i canti delle donne
la festa della raccolta
i riti d'ottobre.
Io ero solo come un cane
al sedicesimo piano del mio attico a Milano
e non mi importava se a quell'altezza
potevo grattare il cielo
se al fianco avevo una grande piscina,
la musica e una proprietaria molto carina.
Nonostante tutta la mia tristezza
devo ammetterlo ma con pazienza
mi abituai a quell'altezza.
Poi all'improvviso un giorno
presi i calci dell'inverno
e lì ricomincio il mio inferno,
non avevo più speranza, solo  lacrime in abbondanza
sui rami la coperta trasparente del gelo
sulle foglie avevo un velo di piombo nero.
Ho maledetto il mio destino
il colore acre di questo cielo
questa cappa di veleno
gli architetti vip di Milano
la crudeltà di chi mi ha strappato
l'indifferenza di chi mi ha venduto,
ho maledetto i contadini delle mie parti
quelli che si sono arresi
quelli che si sono venduti pure le bestemmie.
Non so come ho fatto
ma dopo il primo, ogni inverno ho superato
e a malincuore ho scoperto
della rassegnazione il suo cattivo effetto
infatti non ho per niente un bell'aspetto.
Ho scoperto che quest'attico al sedicesimo piano
anche gli uccelli lo considerano fuori mano
qui non arriva nessun pettirosso
non arriva neanche un canto
neanche le rondini osano tanto.
Così me ne sto solo,
passo le mie stagioni
creando per diletto
l'illusione di un altro tempo
vivendo ancora nel passato
il presente che mi è toccato.
Un giorno, poi, all'improvviso
è successo qualcosa d'imprevisto,
forse per la mia malinconia o per farmi compagnia
mi hanno fatto un regalo
mi hanno messo un vaso accanto
con dentro un ulivo delle mie parti.
L'ho visto combinato proprio male
la chioma arruffata, qualche ramo secco
sembrava sopravissuto a un brutto temporale.
Ho pensato subito ai dolori del trapianto
alle vertigini dell'altezza
alla fatica del lungo viaggio,
ma lui mi ha subito smentito,
non erano quelle le sue sventure
non era colpa del viaggio ne della malinconia
ma per colpa di una strana malattia
che a lui l'avevano salvato appena in tempo
e che per sicurezza era meglio stargli lontano.
All'inizio non capivo e ho chiesto chiarimenti
così a bassa voce mi ha chiarito il suo dolore
mi ha detto che giù in paese
nel terreno dov'è nato
dei suoi novanta fratelli
neanche uno s'è salvato
nel giro di pochi anni
si son seccati quasi tutti.
Mi ha detto che gira una brutta epidemia,
all'inizio si seccano le foglie una a una
poi muoiono rami interi
infine i tronchi nel giro di una primavera
sembrano scheletri presi a morsi dal vento
cadaveri impalati al suolo
bandiere infilzate nella patria della resa.
Mi ha detto che è tutto in rovina ormai,
fanno pena tutti quegli alberi potati storti
sembrano le croci tristi di una guerra
lapidi di un cimitero sotto il cielo.
Mi ha detto che ormai dalle nostre parti
niente cicale, niente nidi sui rami
niente volpi nelle tane, niente voci di contadini
niente canti di donne, niente feste per la raccolta
niente piccoli cerchi sotto gli alberi,
adesso è un mortorio di silenzio
nessun vento risuona tra gli ulivi .
Mi ha detto che adesso, disperati
i contadini piantano solo ulivi nani
messi in fila come ai supermercati
facili da coltivare
facili da potare
facili per guadagnare.
Dicono che per questa malattia
non ci sono cure
non ci sono rimedi
che non c'è niente da fare
si può solo eradicare,
che in due parole vuol dire
radici da tegliare
vogliono bruciarci le nostre radici
questo vogliono fare.

Allora ho cominciato a pensare, a ragionare
senza dire una parola, senza neanche respirare
neanche una bestemmia mi sono lasciato scappare.

Così ho pensato con grande tristezza
che visti i  tempi e quello che accade
in fondo si sta bene a quest'altezza,
che nella cattiva sorte ho avuto fortuna
anche da qui a Milano si vede la luna
e anche se non do più nessun frutto
il mio destino non è poi così brutto
mi dovro accontentare di non diventare secolare
e di finire i mie giorni qui al sedicesimo piano
di un attico a Milano.