Il mare perchè corre di Livio Romano

Il mare perché corre” è il titolo del romanzo, edito da Fernandel: un ritorno atteso, quello del romanziere neretino Livio Romano, che, questa volta, ci riporta ai fatti del 2003, all’omicidio di Marco Biagi e alla comparsa, sulla scena del terrorismo, delle nuove Brigate Rosse e...


Inseguendo la Storia a bordo di una vecchia Bmw

Eliana Forcignanò


Il motivo dell’inchiesta è uno fra i più antichi nella storia della letteratura. Dai greci ai letterati rinascimentali, passando per il medievale Dante e per il ciclo dei paladini di Francia, chi parte per un viaggio più o meno lungo è sempre in cerca di qualcuno o di qualcosa: la donna amata, la salvezza spirituale, il Graal. In altre parole, un oggetto reale o simbolico il cui valore si presuppone superiore a ogni attesa. Le letterature dell’evo postmoderno – in grado di rispecchiare la crisi di un mondo costantemente attraversato dalla dissoluzione della coscienza e, sovente, dallo sfaldamento del segno in quanto portatore di significati – traducono il motivo dell’inchiesta in quello della vacuità e vanità della ricerca. La partenza, il viaggio divengono odissee senza ritorno: vien meno l’oggetto e, per citare un noto poeta, è il viaggio verso Itaca ad acquisire importanza, non solo o non tanto la destinazione. Fantasticando, Itaca potrebbe essere la meta di un ritorno agognato da un ebreo reduce dai campi di sterminio o da un bosniaco troppo a lungo vessato dalla paura della pulizia etnica e, per tal motivo, costretto a emigrare dalla propria terra, ma questo chiedetelo a Livio Romano che scrive un romanzo in cui l’inchiesta diventa peregrinazione a bordo di una vecchia Bmw con un carico di orologi Tissot contrabbandati nel portabagagli e la ferma voglia di ritrovare una donna musulmana emigrata in Italia, nella bassa veronese.


Di Piero, di Helena e di Aurelien

“Il mare perché corre” è il titolo del romanzo, edito di recente da Fernandel: un ritorno atteso, quello del romanziere neretino Livio Romano, che, questa volta, ci riporta ai fatti del 2003, all’omicidio di Marco Biagi e alla comparsa, sulla scena del terrorismo, delle nuove Brigate Rosse. La narrazione, tuttavia, si dipana su diversi fronti – è il caso di chiamarli così, perché ogni ambientazione è dilaniata dal conflitto – fra i quali, la Bosnia e la Palestina. Il tutto, come solo Livio Romano sa fare, condito da sapidi equivoci e ironia mai saccente, ma talvolta, sì, feroce, posta nelle bocche e sulle lingue di personaggi che feroci non sono. Piero, commerciante del Salento sulla quarantina passata, è disilluso, ma non abbastanza da evitare di perdersi dietro le grazie di Helena, la bella oculista bosniaca che, un bel giorno, senza dir nulla, smette di rispondere a messaggi e e-mail del suo innamorato italiano per rifugiarsi a Legnago dove fa l’assistente nel reparto oftalmologia dell’ospedale. L’innamorato italiano – cioè Piero – la cerca disperatamente e, nel corso della sua inchiesta, s’imbatte nello stravagante Aurelien Conard, francese solo di nome, ché, in realtà, è italiano e si chiama Piero anche lui, solo con quarant’anni in più rispetto al Piero commerciante. Aurelien è un vecchio giramondo: originario di Galatina, è stato persino a Gaza cercando disperatamente una giovane ebrea incontrata quando era ancora un ragazzino e i sopravvissuti all’efferatezza dei crimini nazisti sbarcavano sulla spiaggia di Santa Maria di Leuca.

Fra Aurelien e Piero, tutti e due a bordo della vecchia Bmw, nasce una certa complicità: i due, un po’ in italiano, un po’ in dialetto salentino – quel tipico impasto che è la specialità dell’autore – si raccontano le loro vite, anche se, in verità, è soprattutto Aurelien a raccontare e, dalle sue parole, senza retorica, ma con qualche rimpianto – emerge un Salento da mille e una notte, immerso nei chiari di luna estivi e percorribile in bicicletta o a bordo di una Topolino. Un Salento in cui gli ebrei trovano ospitalità e trovano anche l’amore, ma non abbastanza da pensare di rimanere e di integrarsi con la comunità del luogo. E l’inchiesta continua: “nel luogo che attende tutti noi”, dice nientemeno che Golda Meir ad Aurelien o, in questo caso, sarà meglio chiamarlo con il suo vero nome: vecchio Piero. Vecchio Piero, a sedici anni, si ritrova dinanzi a una scelta: sposare Nela e partire per la Palestina, lasciando per sempre la sua terra, la terra dei fichi con le mandorle e dei tramonti che fanno venir voglia di piangere, oppure abbandonare la ragazza e non farsi più rivedere. La decisione arriva, ma troppo tardi: Nela, nottetempo, parte per la Palestina e, in quel momento, il cerchio si dilata per vecchio Piero che, però, non smette di cercare né di sperare.


Nella leggerezza del narrare

Livio Romano è maestro nel tratteggiare i personaggi e le vicende con sagacia e humor inglese, ma anche con una malcelata partecipazione. La trama è riuscitissima, ma non solo quella. Come in “Niente da ridere” (Marsilio, 2007), vi è una certa attualità nel commerciante che vuol cambiar vita e s’imbatte in un complotto internazionale, negli amici comunisti che si accasano e smettono di frequentare i centri sociali, nell’amore per una donna migrante che ha come sola religione la propria libertà, nel militare un po’ stupidotto – figlio di un’amica di Piero – che rivela i propri segreti e si vanta apertamente della sua professione e della missione di pace che gli è stata affidata. E qui, Livio Romano sembra quasi irridere alle missioni di pace che si fanno con le armi ben strette in pugno. Tuttavia, considerando i fatti narrati, a chi domandasse se “Il mare perché corre” è un libro ideologico o borghese, comunardo o qualunquista, è d’obbligo rispondere che la leggerezza e il segreto di una narrazione così gradevole risiedono proprio nella capacità che l’autore dimostra di rimanere in una sorta di “aurea mediocritas” alla maniera oraziana. Nessuna condanna del vizio, né giustificazionismi di sorta, soltanto il gusto e il piacere di narrare un pluriverso variegato e multiforme quale quello dei suoi personaggi. È questa, a ben riflettere, la vera inchiesta di Livio Romano: un’inchiesta, una ricerca di natura antropologica, perché il narratore che si rispetti è anche un po’ antropologo, sempre a scardinare con il grimaldello quella serratura blindata che è l’indole dell’uomo.