Musa

di Irene Leo

Mi destai un giorno dal torpore. Il torpore dolce del miele che sgorga lento, fluido e sublime sopra le cose, gli oggetti, i momenti. Spigoli camuffati di tondo bene, di sogni e desideri.
Mi svegliai come quando un tuono inatteso lambisce d'improvviso il cielo estivo. E fu bizzarro alquanto aver consapevolezza diversa e nuova di quel tutto.
Mi ritrovai imbrigliata tra le tende pesanti, broccato rosso e consistente, di muta e altrui disperazione, dalla trama fitta, che leva il respiro.
Impossibilitata nei movimenti, avvertii un torpore ed una muta preoccupazione e mille voci.
Finalmente aprii gli occhi. Cominciai a respirare offuscata dalle malie dei petali carminio, profumati d'oriente, dai toni d'azzurro e blu del mare. Cominciai a respirare, con i miei polmoni.
Le parole riacquistarono il senso sereno dell'equilibrio, e da lontano cominciarono a sfumare.
Il pensiero come un destriero purosangue, cominciò a galoppare veloce oltre, cancelli, mura, orizzonti, oltre i recinti di belle speranze che aggradano ma imprigionano, oltre gli amori cantati e taciuti, oltre gli acquerelli di poesie declamate alla luna.
Compresi che non erano altro che semplici prove. Prove d'amore che ogni cuore decantava a se stesso, quasi come fosse una rassicurazione, un dare conferma al mondo, che si è ancora capaci di amare. Ma è difficile scrivere a se stessi, ed allora si inventa il volto di una Musa. Una qualunque che somigli parzialmente all'ideale di perfezione cosmica. Un prodotto tanto bello, quanto irreale. Feci per sollevarmi. Le mie ali erano appese al muro, come trofeo. Il mio nome, brillava come su una locandina da circo. Io che mai ho amato luci finte e sintetiche. Io che non ho chiesto mai. Nulla. Mi ritrovai invece con le mani piene, ed il cuore vuoto…
Mi sollevai. Mi scrollai lentamente dalle spalle la pesantezza del silenzio e cominciai a parlare.
Ma una sola parola sgorgò dalla gola arsa di vento e sussurri altrui. Stanca di sorridere e felice di piangere e di apparire la creatura più imperfetta del mondo. Felice di non esserlo, Musa. Felice d'essere disgraziatamente umana. Aprii la finestra sul cuore, accanto al caminetto ardente dell'anima, per cambiare l'aria viziata di nostalgia.
Cominciai a parlare.
Sentivo il vento freddo della realtà sferzarmi il viso, con amara verità, provai dolore, sulla pelle fiorì un brivido, e si infranse la magione di cristallo in cui per troppo tempo era stata condotta, in maniera consenziente.
-Tacete!
Fu il grido.
E prese le mie ali, le indossai , in quanto parte di me, ed andai là fuori, senza dire altro, senza volare.
E dei petali carminio, dei profumi d'oriente, delle poesie declamate alla Luna, non rimase che il puntino luminoso di una stella destinata all'eclissi. Della Musa rimase il guscio vuoto di una cicala, appeso al sole. E dalla goccia di pioggia, sgorgata dal candore invernale, nacque una Donna libera e vera.