“Solleva l’anima amico / perché dobbiamo camminare"

La poesia di Comasia Aquaro
di Mauro Marino

La poesia vive stagioni alterne, segue il flusso della necessità: viaggia sotterranea e tesse umori, sensibilità, ascolti, a volte emerge, si fa lingua e cerca occasioni per fare “scasso ai cuori”.
Poeti, piccoli libri, antologie, sforzi di comprensione che coinvolgono critici, editori ed organizzatori, laboratori, happening di voci, rassegne e festival, nuovi certamen e gare tra poeti si rappresentano nelle cronache culturali.
La Puglia appare grande interprete di questa nuova scena, quasi che questa “democratizzazione” della poesia abbia svegliato e motivato alla scrittura chi a lungo è rimasto ai margini del letterario, senza voce; per prime le donne.
Comasia Aquaro è, di questo movimento di poesia, interprete di riguardo.
La sua lettura è uno scatto continuo di voce che riempie lo spazio.
Il verso non sta fermo, muove sensi e corpo, riempie la bocca come un urlo nell’urgenza della salvezza. “Sono d’altri pianeti i poeti”, scrive Comasia, “se toccano terra / è solo per l’erba / per quant’è bella verde / aspra di luce”. Un alfabeto povero svela ciò che è trattenuto nel cuore. Ciò che non si può dire trova nei versi parola.
“Non è poco / per una proletaria piena di botte”, la conquista della scrittura.
“A torto o a ragione / in bocca comando io. / Spianate spianate / e anche se bruciate i libri / le lingue resistono ai roghi / le piazze sono piene / di libri mai scritti coi polsi bianchi / di libri di libri / che odorano di cedro”. Parole dirette, immediate si sporgono sull’abisso dell’ignoto, dell’incomprensione e dell’indifferenza, in cerca di verità, esortano un’altra coscienza del Tempo.
Lei è nata a Martina Franca, nel crudo incanto di pietre della bassa murgia, porta il nome d’una santa legata al culto della pioggia: “Come Sia” (da cui Comasia). Non se ne sapeva il nome, traslata dalle catacombe romane e trasferita con solenni cerimonie in Puglia, faceva piovere e piovere ad ogni uscita. Lacrime di cielo a nutrimento della sete, come i versi a colmare l’arido umano.
Un libro della Aquaro, Vesto il vento, uscito nel 2004 per Lieto Colle, porta l’introduzione di Franco Loi e, leggendo questo suo I fiori nei cantieri, titolo tratto da una poesia dedicata alla morte di una bimba-operaia, edito quest’anno da Campanotto, capiamo perché, colui che riteniamo padre della poesia civile contemporanea, si sia dedicato a Comasia.
Ella è guerriera, porta una lingua forte, certa nel suo farsi: “Vado e torno / passo dal tempo maledetto / lo vedo ne scrivo / rivivo il malore / il dolore d’essere stata / vittima innocente / delle sue lancette”.
Una lotta propria di molte, di molti, di tutti coloro che non trovano corrispondenza sensibile col Mondo, con ciò che ne è rimasto: “Sono figlia della periferia / ho il sangue dei disperati / gli occhi zingari / la bocca delle puttane / il cuore spaventato dei cuccioli scacciati / e le mie gambe sanno tutte le strade”. Le sue parole non descrivono, non si attardano in digressioni, ma vanno all’essenziale. Come cosa “sacra” la poesia si affaccia dalla pagina e diviene arma necessaria contro la paura.