Sulla poesia di Rossano Astremo

Il ricordo retroverso di vecchi film diventa poesia
di Elisabetta Liguori

Rossano Astremo, L’incanto delle macerie ( I voli, I libri di Icaro 2007)

Cosa accede a due individui, un uomo ed una donna, quando un divano, una poltrona logora, un letto sfatto, se l’ingoia?Mi piace far domande: un gesto che svia la ragione dalla noia delle solite risposte.Mi piacciono le domande ben poste molto più delle risposte e forse è per questo che mi piace la poesia. Molti versi, credo, come molti altri impulsi umani, nascono da una domanda. Dal vuoto che segue la domanda stessa.Mi scuso: non so parlare di poesia, ma ho orecchie e occhi di cui posso servirmi, in questa sede, per raccontare una silloge poetica e le sue domande pungenti.Quella di Rossano Astremo, poeta del sud e nel sud, con il titolo “L’incanto della macerie” raccoglie versi interrogativi dall’impatto eversivo e cinematografico. Sono certa. L’oggi, la vita materiale, è sentita, in questi, come un ostacolo. Quando la realtà subisce una stasi oggettiva, uno stop storico e sociale, proprio la poesia, che misteriosamente sopravvive, è chiamata ad intervenire come momento attivo di prosecuzione forzata. Come resoconto, sintesi, o soluzione. Nel caso di Rossano Astremo, in particolare, la poesia, promanando direttamente dal suo sguardo pieno di desiderio, inchiodato ad un’angosciosa immobilità fisica, a sorpresa, riesce a diventare immagine. Cinematografia lessicale. Muto, bianco nero. Immagine rovesciata, contraddittoria, interrotta. Non vi è nulla di più sintetico di certo cinema. E della poesia, per l’appunto. Per Astremo il Desiderio, assillo poetico irrisolto, svolge una funzione destrutturate del verso e nello stesso tempo narratologica, e per esprimersi si serve del linguaggio spicciolo delle cose, del corpo, dei luoghi. Provo a spiegarmi meglio. Astremo mi ricorda Godard. Il regista. Rintraccio in entrambi la medesima audace sperimentazione, l’occhio visionario, il superamento della tecnica, la divina frammentazione e poi l’accumulo per immagini, per concetti, per parole, per emozioni. La parola poetica del resto genera visioni: sequenze logiche in cui è la forma a suggerire il contenuto. Ciascuna di queste visioni in Astremo riesce ad essere, nello stesso istante, citazione colta, intuizione sintetica e soddisfazione piana e necessaria di piccoli bisogni quotidiani. Un racconto lirico, quello di Astremo, in cui tutti gli elementi, fisici e psichici, si mescolano e il cui effetto visivo e ritmico finale, è quello del caos, un caos minore, sussurrato, fatto di poco, di niente, eppure totale. Due corpi che si amano e assistono al crollo di tutto. In Astremo Amore e Morte riposano sul divano: un cielo enorme, crepato in più punti come una lastra di ghiaccio in prossimità del fuoco, cade dentro due corpi posti al centro di un asfittico universo tondo, in pausa; due corpi descritti come altrettanti cerchi concentrici, anch’essi come il resto, prodotti dal crollo. Concentrici, ma senza intreccio. I versi di Astremo sono dunque l’architrave che regge il peso delle esistenze dei suoi stessi protagonisti nella loro concentricità tolemaica: solo il loro pensiero opacizzato dalla materia, e divenuto parola, l’uno per l’altro, li illumina. Il resto è oscura fatica, virus che prima del verso e ben oltre il verso, s’intravede. Nessuna innocenza: il loro amore è la consapevolezza piena di tutto quel peso. In questi versi, l’amore appare come una parte del tutto, un arto in necrosi, sempre più oscuro, eppur resistente, che non sa arrendersi. Nella scelta delle parole il poeta, infatti, pone amore, morte e mondo esterno a duellare, ciascuno a suo modo. Il tutto è contenuto in splendidi versi distonici, che possiedono differenti velocità: sopra il divano tutto è fermo, ogni immagine ripensa ossessivamente a se stessa, si ripete in loop fino a diventare fissa; lontano dallo stesso divano, invece, la velocità è folle, è baccanale accelerato, pasto cruento e ingordo, battaglia tecnologica. Dunque silenzi e parole, stasi e accelerazione: da questo conflitto è partorita una verità poetica nuda, contraddittoria, sanguinosa, minimale, che si sofferma proprio su quegli elementi materiali minimi del vivere che sempre s’annidano tra corpo e corpo: suoni, luci, croste, succhi, bave. E proprio nello spazio soggettivo minimo dei corpi la frammentazione poetica diventa erotica e si fa più evidente. Astremo illumina singoli arti a riempire un letto, avanzi di braccia, di mani, di gambe, lembi di pelle, rossori d’occhi spalancati, aggrappati a ricordi retroversi come antiche promesse nascoste dentro obiettivi fotografici. Una poesia per immagini questa, ripeto. Anzi dico meglio: una poesia composta da frammenti scompaginati d’immagini iniziali. Tra frammento e frammento, le ombre riducono il senso dell’intero, l’opacizzano. Così chi legge questi versi è naturalmente indotto a servirsi del proprio intuito e del proprio corpo, dei cinque sensi in composizione mista, per comprendere. Ogni calcolo d’amore e eros, nel funereo conflitto tra intimità e universo, motiva lo zero del poeta, ma titilla i sensi. Ad ogni modo, più della vista, del gusto, dell’olfatto, del tatto, quello che mi appare veramente coinvolgente in questi versi è il ruolo primario concesso alla coppia. Finalmente. La coppia è l’unica chiave d’accesso: non un singolo e le sue visioni apocalittiche, non la sua memoria, i passi isolati, ma livelli umorali e temporali distinti, riferibili a due soggetti, soltanto due, l’uno legato all’altro nel corpo, tenuti tra loro in abile equilibrio. La morte, costretta qui a masticare due corpi, invece di uno, s’affatica molto di più: il peso è doppio, il senso è equivoco, ogni allucinazione è binaria, i codici interpretativi del dolore e della bellezza risultano contraddittori. La dolenza del vivere, già duplicata, è per la stessa ragione ridotta della metà. Ogni verso, in Astremo, è misura esatta di questo continuo raddoppio. Stesse le domande, stesse le risposte, tra i due amanti, mentre il tempo, la pioggia e il sole, il loro alternarsi, sono le uniche sorprese. Poesia è il reciproco comunicarsi il Senso di due individui che vorrebbero potersi amare meglio. Dove i grandi comunicatori tacciono ( lo schermo televisivo è muto oltre che osceno, la radio ripete se stessa, l’informazione crolla da una scala a pioli rivolta verso l’inferno), parlano i due corpi sul divano. Parlano di sé. Parlano della fine. Parlano adesso. Fingono di salvare il mondo. Parlano d’incendi sospesi, trattenuti. Parlano della resa e dell’attacco. Parlano di un mondo che va avanti senza il loro consenso, contagiato da se stesso. Parlano ieri. Parlano domani. Nelle quotidiane menzogne (la parola ama iterarsi sino alla strazio). Come attori sulle assi di un piccolo teatro, ripetono il copione, poi lo dimenticano, tracciano linee d’inchiostro, inforcano l’occhiale tridimensionale che offre loro la visione più cupa e malata del mondo; se ne allontanano, se ne contagiano, ne fanno appetiti di ogni tipo. Osservano un monitor acceso che racconta stragi, e dallo stesso monitor sono osservati. L’universo sembra volerlo. Tutto sembra inevitabile. Tutto questo, mentre il divano progressivamente ingoia entrambi, l’uomo e la donna. Il divano di Astremo, piccolo, molle, affamato, incanta i due amanti e poi l’ingoia. Un pasto erotico, gotico, che abilmente finge di essere l’ultimo. Perché nella poesia, come nella prosa, come diceva Pessoa, la finzione dello strazio, ha origine dallo strazio autentico e ne alimenta l’incanto. Così, proprio come in A bout de souffle da Godard, la coppia cantata da Astremo è strumento d’indagine della natura umana. Questa tipologia d’analisi richiede un numero infinito di primi piani in sequenza: la costruzione di un aggregato di piccoli dettagli del corpo umano, diviso in sezioni microscopiche, corpi riflessi in specchi, dentro vetrine, nell’acqua, in un poster, in un video, o in altri pensieri, già pensati da altri. Un amore raccontato per frammenti e fulmini, capaci di sostituirsi ai dialoghi. Astremo racconta l’accecato perdersi nell’amore, un’incantata eclissi di reazione e ragione; racconta lo sperpero delle energie amorose, degli ormoni in circolo, naturalmente fertili, urlanti, eppure così tragicamente fragili. E dopo? Cosa può mai accadere dopo? La poesia diventa verità, e la verità del corpo, si sa, alla fine di un simile scandaglio verbale, può trovare la sua unica revisione nella morte. Proprio come in Godard, nella cui pellicola d’esordio, Patrizia denuncia Michel alla polizia perché vuol dimostrare a se stessa di non amarlo, di non conoscere l’amore, di non subirlo, e che l’amore stesso altro non sia che un piccolo difetto, una leggerezza, un inciampo da evitare, fino all’ultimo respiro, appunto, anche la coppia di Astremo sperpera il suo tempo nell’abbandono. E dopo, quindi? Dopo questo avventato abbandonarsi alla furia cieca del mondo, sprofondando in un divano? Se non la morte, che in fondo è solo vanto, altezza, sfida, dopo una poesia come questa, almeno un po’ di silenzio.