Il disegno dell'armonia

Per Vittorio Pagano

Antonio Errico

Occhi di gatto aveva, Vittorio Pagano. Pupille incandescenti che perforavano il buiore, penetravano nel tempo e nella terra per trovare le parole con cui dire il loro mistero. Occhi che si restringevano per impossessarsi dei particolari, per trattenere riflessi trasparenze rifrazioni, come per predisporsi ad una caccia, ad un agguato, o che si dilatavano per superare ogni barriera, per proiettarsi nella lontananza.

Così violavano confini, sfondavano sbarramenti , si approssimavano alle

soglie dell’aldilà,

soglie varcate, mai varcate, spazi

di pietà, d’empietà”.

Vedere la metamorfosi dell’esistenza sopra quelle soglie, era la sua tensione straziante, il suo azzardo, il suo tormento, la sua pena, il suo desiderio, la paura, la sua felicità , la sua tristezza. Pagano aveva l’ansietà della visione: far apparire le cose che non si vedono, provocare la loro epifania, evocare figure sprofondate nella memoria, o maturate nella fantasia, far riaffiorare quello che è sommerso, come per salvarlo dallo sfacelo dell’oblio. Lui sapeva bene che le creature che non sono – non sono più - restano vicine, si rifugiano in qualche parte di noi, per non essere abbandonate, per non abbandonarci, per farsi sentire ancora e per sentirci ancora respirare la vita che hanno respirato.

I morti vegliano sotto le nostre ciglia, diceva,

con una sterminata meraviglia

d’essere lì, da sempre, non risorti,

non ritornati, sempre lì”.

Con i suoi occhi attraversava la città notturna, svelava i nascondigli della sua anima, scivolava furtivamente dentro i vichi. S’inabissava in essa. Poi ne veniva fuori, stracarico di parole.

Vittorio Pagano sapeva perfettamente che le parole esistono già tutte, perché esistono già tutte le cose, perché quello che si conosce è stato nominato e quello che è sconosciuto non si può nominare. Che cosa può creare mai il poeta, allora, se non può creare le parole. Qual è il suo compito, il suo lavoro, il gioco, che cosa gli rimane di tentare, qual è la sfida o qual è la condizione che costituisce il privilegio o la dannazione del poeta.

Forse per Pagano tutto questo – il gioco, il compito, il lavoro, la felicità, la disperazione – consiste nella forma. Se non può creare le parole, la forma invece sì, la può creare. Così cerca una forma perfetta: che risuoni. Che innanzitutto abbia risonanza, come tinnire di monete nella tasca, come sonagliere di cavalli bardati per la fiera, come un canto che si alza nella sera.

Il suono delle parole è un elemento essenziale nella poesia di Vittorio Pagano. In una poesia – in ogni sua poesia- il corpo delle parole vibra, oscilla, genera onde sonore intense, frequenti, dense, che si propagano, si combinano ad altri suoni, acuti, gravi, ad altri timbri forti o leggeri.

L’aspirazione suprema di Pagano è l’armonia. Questa è la categoria che lo distingue, la facies che lo rappresenta.

Quello che diceva Paul Verlaine rappresentava un comandamento: “ de la musique avant toute chose”.

L’armonia è il movente e l’esito della sua scrittura. Forse, prima che della scrittura, del suo pensiero. E’ una struttura interiore, una movenza naturale. E’ il ritmo, la pulsione, la radice. E’ il genotesto. Il punto in cui si stringono i nodi psicologici, maturano gli stimoli, si formano le immagini, prendono sostanza le metafore, comincia a intrecciarsi la rete testuale. E’ il punto in cui agisce il rimosso e l’inconscio cercando di trovare accoglienza nella parola. Qui c’è il caos delle storie, la ressa dei fantasmi, il rutilare delle sfumature del senso, ci sono le passioni, i grovigli, i brandelli del sogno, le avventure, i misteri.

Qui c’è l’armonia per Pagano: una modulazione del pensiero che organizza il confuso, il caos originario, che dà forma all’informe, coscienza all’inconscio, comprensione all’incompreso, espressione all’inespresso, razionalità all’irrazionale.

A corto d’opera, irto d’aghi, morto,

al senso della forma che mi porto

indosso, en demodè”.

Una forma di poesia che non si differenzia da quella del pensiero e spesso neppure da quella dell’agire.

Una forma serrata, senza sbavature, imperfetta talvolta perché imperfetta è la vita. Una forma che procede per avvolgimenti, come se volesse circondare gli oggetti poetici con una fune che li immobilizzi, li renda ostaggi, preda di chi scrive. Una costruzione sorvegliata, raffinata; una tensione metrica costante che si sente nelle sillabe, che scorre di verso in verso, costantemente ritornante, ciclica.

Poi, sull’elemento naturale, su quella sorta di risposta istintiva al richiamo della musicalità, si innesta l’arte: quell’arte che è sapienza di costruzione, architettura di lessico, versi, metafore, appresa soprattutto nella bottega dei suoi poeti francesi, di quelle “ anime allo sbaraglio, ribelli a ogni regola della vita e della convivenza, strutturate di déréglément , corrose e corrosive”. A queste anime si era sentito vicino, probabilmente anche per un’affinità esistenziale oltre che poetica ( oppure le due cose sono una cosa sola?); aveva sentito dentro “ l’anarchia dei sentimenti, le aberrazioni fantastiche, la sensualità più torbida e intricata, i tumulti e le febbri, i vortici e i deliri” che “non appena si proiettavano nel misterioso angolo di rifrangenza degli ardori poetici, andavano naturalmente, spontaneamente a inquadrarsi in versi d’esatta scansione, in strofe di preciso disegno”.

Così diceva.

Forse i maestri non si scelgono mai per caso. Nella poesia di Vittorio Pagano accade esattamente questo: tutto va ad inquadrarsi in una esatta scansione, tutto rientra nell’ordine di una forma che il pensiero ha elaborato, ogni cosa – il particolare, il dettaglio, la minuzia , la parvenza, la percezione minima, la sensazione epidermica – rientra, va a sistemarsi, in un disegno che rappresenta un’idea dell’universo.

In quel disegno ci sono le cattedrali, le maschere, i putti, gli inverni, la madre, gli incubi, la terra , le Sirene negli occhi, i miti abbandonati, i sortilegi spenti, i suoi fantasmi tanto protetti, tanto amati. C’è la vita come tenera pietra, il randagio in cerca di fortuna, l’ipotesi – oppure la minaccia - di una risposta di sangue a una scrittura.

Nella scrittura di Pagano l’Io si altera, si deforma, si impone o si nega, sovrasta o si ritrae, si raddoppia, si moltiplica, si smembra, si annulla.

Gli occhi di gatto gli servono a scrutarsi dentro, a muoversi nell’oscurità dei sentimenti, nel delirio fantasticato, nel sogno, nell’amore, nella sua esistenza vera e in quella inventata, nella memoria labirintica e nella fantasia sfrenata, nelle realtà che accerchiano e nelle straordinarie fughe,

nelle sue verità di uomo, nelle sue menzogne di poeta.

Senza un demone dentro , come Vittorio Pagano non si scrive. Senza un’inguaribile inquietudine, una smania incessante, un’ansia che percuote, una cosmica paura della morte, un dolore impenetrabile, segreto, senza una lacerazione dell’anima, uno strazio del pensiero, un’intensità di poesia come la sua non si raggiunge.

Ha speso tutta la vita per complicare i suoi messaggi, per renderli indecifrabili a chi li degna appena di uno sguardo superficiale”, diceva Donato Valli in un ricordo appassionato.

Il risultato consiste in una poesia fatta di nodi semantici: concetti e sensi annodati, immagini, metafore , figure sovrapposte, moltiplicate, echi memorie oblii sguardi ombre attese sogni speranze desideri, tutti stretti in un nodo solo, in un solo groviglio d’essere.

A un filo s’è ridotto

l’àndito perseguibile, furente

se n’aggroviglia il piede che ci mente

provvidi scali- e il ponte umano è rotto” .

Pagano sente che la poesia avanza sempre più pretese, impone dedizione, assolutezza, devozione, consacrazione, clausura. Così smette di guardare fuori. Sprofonda dentro sé. Si inabissa. I nodi sono lì: in interiore. Sono fatti di rimpianti, di paure, di interrogativi che reclamano risposte. Non cerca verità, però, Pagano, dentro di sé, agostinianamente.

Dentro di sé cerca di rintracciare un senso, una ragione di quei nodi che si traducono in parole.

Finchè ha guardato fuori il senso si mostrava chiaramente, anche se spesso ambiguo, contrastante, tramato di crepe, fratture, incomprensioni.

Il senso era nel paesaggio, per esempio.

Era nella gazzarra provinciale, nell’estasi bizzarra, negli uliveti, nelle scogliere del Capo, nelle forme sbigottite del barocco, nella loro orditura di maschere e di putti, nei vicoli della sua città.

Dove andava il poeta, alle due del pomeriggio, nella città abbacinata dal sole? A cercare le parole?, un varco alla disperazione?, le parole, unico privilegio del povero?” si chiedeva la sua amica Rina Durante ne Gli amorosi sensi ( Manni, 1996).

Probabilmente sì, Pagano andava - quasi profugo, quasi disperato – a cercare parole per le sue cattedrali di versi, e la città, il paesaggio, gli davano parole, come un dono, o come la restituzione di un prestito di senso.

La relazione con il fuori da sé appare lineare: il pretesto si fa testo, l’occasione si fa verso, l’atmosfera diventa una condizione in cui il pensiero trova motivi e moventi per elaborare figurazioni.

Il processo poetico si fa più complesso, si carica di tensione, diventa smanioso, quando l’indagine, l’interrogazione, prendono la direzione dell’interiorità, quando la parola si ritrova a confrontarsi con il concetto di niente o di nullità, di attesa, di morte, di vuoto, di fuga: la fuga come tensione , spasimo costante, desiderio, aspirazione, sogno: fuga da chi, da cosa. Forse soprattutto – o solo – da se stesso.

Ho sognato di treni sempre in fuga,

con un viso di diavolo:momenti

sudati, insudiciati quando gli occhi

pensano… ed una pozza si prosciuga

nella sabbia incapace degli eventi,

nell’incavo lasciato dai ginocchi

troppo a lungo preganti”.

Ma tentare di fuggire da se stesso significa tentare di fuggire dalla propria morte.

Come ogni altra creatura, Pagano tenta istintivamente la fuga dalla propria morte. Come ogni altra intelligenza, ha la consapevolezza dell’impossibilità di tale impresa.

Però c’è qualcosa che un poco rassomiglia all’immortalità, o che forse almeno per un istante, per uno sguardo, un palpito, un trasalimento, un’emozione può far sentire l’indescrivibile sapore dell’immortalità.

Il sapore dell’immortalità è nella sensazione – qualcosa di preesistente al sentimento – dell’amore.

Allora Pagano si fa poeta d’amore.

La parola d’amore è strumento – quantunque incerto, quantunque precario – di approssimazione all’eterno.

Ha paura di perdere la parola d’amore, Vittorio Pagano; ha paura che gli si dissolva nel pensiero, che si consumi nei significati, che s’assottigli la sua consistenza, che il suo fuoco si spenga. Allora dice nell’ “ Anniversario di nozze” :

Ma i versi no, le mie parole,amore,

no!Se le perdo, le parole, amore,

io muoio, sento un rantolo che sfiora

la mia carne – e barcollo, e non riposo

più, non amo e non odio, e solo allora

la pazzia m’atterrisce e l’angoscioso

delirio è un tonfo nello stagno immoto”.

La domenica del 16 febbraio 1958, su “ La fiera letteraria” diretta da Vincenzo Cardarelli, escono quattro “ Ballate matrimoniali” che Nicola Carducci ha commentato in Vittorio Pagano. L’intellettuale e il poeta ( Pensa, 2004).

In queste ballate Pagano dà parola a ogni sfumatura della bellezza, all’affanno, allo spaurimento, al piacere, al desiderio ( e al pensiero di piacere e desiderio), alla seduzione, all’impulso, alla sensazione, alla grazia, al turbamento, alla fissità e al movimento del tempo dell’amore.

C’è dolcezza di memoria e ansia dell’attesa. C’è corporeità e metafisica nelle parole che dicono di nudità baluginante, di pelle d’ombra , di rimedi esausti elargiti “ in pegno della morte”.

Ecco, dunque, che ritorna il contrasto tra amore e morte, mentre la donna trasfigura in angelo, in “ parabola d’eterno”.

C’è in queste poesie d’amore di Vittorio Pagano, una condizione di felicità assente in qualsiasi altro suo verso, in ogni altra sua parola. C’è un respiro profondo, un ritmo quasi orante, una distanza dalle pene della vita, una serenità solo di tanto in tanto screziata dalla nuvola della finitezza che gli attraversa il pensiero: una nuvola che Pagano non vuole si soffermi e che quindi scaccia con un soffio di parole, per restituire i corpi e i pensieri alla purezza del raggio, alla contemplazione, all’esperienza amorosa e mistica.

A proposito delle quattro ballate Nicola Carducci dice che “ vien da pensare, senza contaminazione alcuna, al ‘Cantico dei cantici’ o, forse, più pertinentemente, al ‘Pervigilium veneris’”.

In queste poesie d’amore l’intensità figurativa di Pagano stempera i toni; il demone si acquieta, si fa buono; la parola del poeta si misura con il desiderio dell’uomo, l’esperienza dell’espressione con quella della seduzione, eros e logos si richiamano e si completano, cercano una sintesi, una compenetrazione.



Tutta la poesia di Pagano è sostanzialmente un’autobiografia . La scrittura è lo specchio di una identità che si cerca nella parola, che in essa trova il senso delle malinconie, dei turbamenti, di qualche felicità –

o la sua rapida ,tremolante impressione -, delle molte passioni, dei travagli, di scompigli interiori. L’Io è dichiarato e rappresentato in ogni sua manifestazione, nelle sue fughe sapienti o bizzarre, nei ritorni teneri, pensosi. Spesso la parola gli restituisce un’immagine che lo mette a disagio, lo disarma, lo sorprende, qualche volte lo inquieta, altre volte lo spaventa . Non si aspetta di essere nel modo in cui la poesia lo mostra. Non si aspetta la rivelazione così prepotente e bruciante delle sue verità intime, profonde. Non si aspetta che le parole possano avere una così forte risonanza interiore.

Non se lo aspetta, Vittorio Pagano. Perché quel poeta dal raffinatissimo mestiere, l’architetto di forme, il costruttore di rime sontuose , rimane un uomo stupefatto dalle cose, dagli eventi, dai fenomeni, dai suoi sentimenti, dalle parole che narrano quei sentimenti, il loro turbinio, il loro tormento.

Non si aspetta, Vittorio Pagano, che l’esperienza della poesia, che quella sostanza incorporea che sono le parole, possa disvelare l’essere fino al punto di sbalordirlo.