La poesia di Nichi Vendola











21 marzo giornata mondiale della poesia/


È noto a tutti che Nichi Vendola, prima ancora di ogni altra sua attribuzione, ha posto sempre la poesia come una delle forme più care al suo modo di essere politico e letterato (...) Nei versi di Nichi Vendola c’'è tenerezza, un certo dolore leopardiano e, se si vuole, anche la ricerca di un'’identità complessa, con quell’'essere che si sdoppia, quell'’unicum platonico che, scindendosi, si apre al movimento della diversalità suprema e che, nell’'oltrepassamento della catarsi, trova la condizione accettabile della sopportazione della vita.
C’è dolcezza nella poesia di Vendola, e la vedi quasi sempre emergere da abissi ancestrali quasi come un sommergibile carico di sentimenti, di paure, di difficoltà di dire le cose come stanno, quasi come un urlo che chiede ascolto.

Maurizio Nocera

Oggi, siamo in una situazione di contingenza politica, ed in essa ci sta andando di mezzo anche la poesia. Mi si dirà: e che c’entra la poesia con la politica? Sta di fatto che qualcuno dello schieramento di centro-destra ha trovato da ridire sul ricorso dell’'attuale presidente della Giunta regionale pugliese, Nichi Vendola, alla sua propaganda fatta anche con spot poetici che, presumo, non siano di suo stretto pugno, ma frutto de “La Fabbrica di Nichi”, il cui committente responsabile, almeno per quanto riguarda l’'edizione delle cartoline propagandistiche, è Gaetano Cataldo.

Ovviamente, nella mente dei detrattori della poesia vagola l'’idea che essa non abbia nulla a che vedere con la politica. Chiaramente si sbagliano, oppure sono in malafede e sanno di esserlo, o ancora ignorano la storia del mondo e dell'’umanità, perché è sin dai tempi più remoti che la forma poetica viene usata per fare proposte politiche e per propagandare il proprio programma elettorale.

Si pensi, ad esempio, ai dibattiti elettorali nell'’Atene di Pericle, o nella Roma imperiale e repubblicana, quando gli stessi aspiranti imperatori, o gli stessi senatori dell’'impero o quelli della repubblica facevano a gara fra di loro a chi versificava meglio, persino le stesse arringhe senatoriali, a volte, si facevano a suo di frasi poetiche.

Comunque, i versi criticati dai soloni-ignorantoni del centro-destra sono questi (cito solo quelli che mi sono stati recapitati): «Nascon/ giovan talenti/ con gli spiriti/ bollenti.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da una lampadina illuminata; «Dai tedeschi/ ai giapponesi/ tutti in Puglia,/ tutti i mesi.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da una siloutte della regione Puglia; «Ville e soldi/ dei mafiosi/ per progetti/ assai virtuosi.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da un obiettivo di un mirino di puntamento; «Con l’Apulia/ Film Commission/ lo sviluppo/ non è fiction.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da una cinepresa; «Giù le mani/ dalla brocca:/ l'’acqua è nostra,/ non si tocca!// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da una goccia d’acqua; «Non si può/ scavare il fondo/ del più bel/ mare del mondo.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato da tre linee-onda di mare; «Cambia l’'aria/ tarantina/ con la legge/ anti-diossina.// Vendola/ la poesia è nei fatti», simbolicamente raffigurato dalla siloutte di una fabbrica.

Come si legge, si tratta di versi innocenti che, escluso gli ultimi due (Vendola/ la poesia è nei fatti) che si ripetono, gli altri sono brevi lemmi in quartine di rima baciata, quasi tutti scritti con intento chiaramente immaginario e ad effetto immediato, per di più rafforzato da un simbolo.

Perché dunque le critiche inopportune ed insensate dei soloni-ignorantoni del centro-destra all'’uso della poesia come forma di propaganda politica? Volesse il cielo che tutte le propagande politiche di questo mondo si avvalessero della poesia come confronto fra gli aspiranti ad un seggio, piuttosto che gonfiarsi spesso le labbra di insulti, calunnie, falsità, improperi, e quant’'altro. E poi perché tali critiche sono state rivolte al modo con cui sta facendo la sua campagna elettorale l'’attuale presidente della Giunta regionale? Non è forse noto a tutti che Nichi Vendola, prima ancora di ogni altra sua attribuzione, ha posto sempre la poesia come una delle forme più care al suo modo di essere politico e letterato?

Non a caso egli scrive poesie, e persino la sua stessa prosa è poetica. Si leggano, ad esempio, il suo libro “”Soggetti smarriti”” (Datanews, Roma 2005), il libro intervista di Cosimo Rossi, “”Nikita”” (Manifestolibro 2005), e il libro a due mani di Ciotti-Vendola, “”Dialogo sulla legalità”” (Manni, San Cesario di Lecce 2005). Vendola scrive testi poetici sin da quando era giovanissimo. È lui stesso che lo dice nella “Premessa” all’'ultima sua raccolta di liriche, ““Ultimo mare”” (Manni editore, San Cesario di Lecce 2003), dove leggiamo: «Rimetto insieme le mie carte, versi e raccolte che sono il distillato di un'’intensa ansia di scrittura. Ho apportato ai testi editi più recenti solo lievi correzioni, per liberare le parole dalla ruggine dei miei rancori e delle nostre cronache. […...]. Le quattro poesie di ““Ultimo mare”” […...] sono come un estremo approdo, un punto della geografia emozionale in cui riprende la navigazione e la significazione medesima del “viaggio” […...]. ““Prima della battaglia”” è l’'opera più antica, pubblicata nel lontano 1983, quando avevo venticinque anni e assai poco pudore [...…]. “ “La debolezza””, dedicata alla memoria cara di Dario Bellezza, vide la luce nel maggio del 1997, ed aveva un’'ambizione ideologica inesausta, nel suo srotolare piccoli codici (quasi degli ideogrammi) di libertà e di esodo del paradigma della forza. “”Lamento in morte di Carlo Giuliani””, scritto di getto dopo i fatti di Genova del luglio del 2001, è nato anche come bisogno di contaminazione tra la ballata popolare e asprezza e oscurità dell’'agire poetico. Sono, per chi abbia voglia di leggerle, le pause insonni del mio tempo perduto: un quarto di secolo a cercare e sillabare orizzonti di senso, a intrecciare ghirlande di dolore, a spiare la meccanica delle onde» (p. 5).

Dunque, quale più evidente e chiara dichiarazione d’'affetto poetico di questa “Premessa” vendoliana che, ancor più, si attesta su una «intensa ansia di scrittura»? Per cui, di quale uso maldestro della forma poetica per una campagna di propaganda fatta anche con i versi, parlano i detrattori di Nichi Vendola e della poesia?

È evidente che si tratta di soloni-ignorantoni super presuntuosi abbarbicati alla scranno non della politica, ma a quello del sottobosco politicastro; gente che ha trasformato la politica, appunto, che è la più antica e nobile arte della filosofia del buon governo, in politicantismo, cioè in quella truculenta forma di potere assolutistico-arrogante che, in questi tristissimi anni di potere massmediatico fortemente personalizzato su di un solo ed unico individuo arrivista, imbroglione ed ignorante, ha travolto antichissimi valori come la bellezza, l’'onestà, la correttezza, l'’umiltà, la disponibilità, altro ancora. Ed in cambio di che cosa? Sempre ed unicamente per quello sporco, spregevole, maledetto dio, che è il denaro. Vogliono denaro, sempre denaro, ed ogni costo, anche se questo può significare passare sul cadavere della proprio madre. E ci passano, ah!, se ci passano su quel cadavere. Il denaro serve loro per comprare tutto, vogliono comprare tutto, e fra tutti costoro, ce n’è uno, imbrillantinato e truccato persino negli indumenti intimi, che non si vergogna di possedere quel tanto di tutto che ognuno di noi può immaginare; non si vergogna di presentare una dichiarazione dei redditi gonfia quanto il pianeta pur sapendo che ci sono milioni di lavoratori italiani ridotti ormai all'’estrema miseria e alla fame. I soloni-ignorantoni detrattori della poesia vogliono comprare persino il sapere.

Sessant’anni fa, Bertolt Brecht scriveva [Questo voglio dir loro]: «Mi chiedevo: perché parlare con loro?/ Comprano il sapere per venderlo./ Vogliono sentire dove c'’è sapere a buon mercato/ da vendere a caro prezzo. Perché/ dovrebbero voler sapere ciò che/ parla contro la compra e la vendita?// Vogliono vincere,/ contro la vittoria non vogliono saper nulla./ Non vogliono essere oppressi,/ vogliono opprimere./ Non vogliono il progresso,/ vogliono il vantaggio.// Sono obbedienti a chiunque/ prometta loro il comando./ Si sacrificano affinché/ resti la pietra sacrificale.// Che devo dir loro, pensavo. Questo/ voglio dir loro, decisi».

Nichi Vendola non ha scritto poesie politiche come questa di Brecht citata, e neanche come quelle, tanto per fare qualche esempio, di Mao Tse Tung od Ho Chi Min, oppure come quelle di Vladimir Maiakovskji (si pensi all'’immortale poema “Lenin”), o ancora come quelle, tanto per citare uno dei grandi poeti italiani, di Vittorio Sereni; ma poesie che scavano nell’'animo umano, che vanno alla ricerca dei tanti, molti perché della difficoltà della vita, quando essa deve essere affrontata partendo da una delle tante comprensibili diversalità umane. Nei suoi versi c’è tenerezza, un certo dolore leopardiano e, se si vuole, anche la ricerca di un'’identità complessa, con quell’'essere che si sdoppia, quell'’unicum platonico che, scindendosi, si apre al movimento della diversalità suprema e che, nell’'oltrepassamento della catarsi, trova la condizione accettabile della sopportazione della vita.

C’è dolcezza nella poesia di Vendola, e la vedi quasi sempre emergere da abissi ancestrali quasi come un sommergibile carico di sentimenti, di paure, di difficoltà di dire le cose come stanno, quasi come un urlo che chiede ascolto.

Per tanti versi, soprattutto nelle poesie giovanili, leggo le liriche di Nichi con la stessa sofferenza con cui leggo l’amato Isidore-Lucien Ducasse, noto con lo pseudonimo di Lautrémont, morto a Parigi appena ventitreenne il 24 novembre 1870. Nel suo più importante libro, “Poesia” (Sampietro editore, Bologna 1966), Isidore-Lucien scrive: «Esiste un solo genere di poesia./ C’è una convenzione affatto tacita tra l’'autore e il lettore: il primo si dà malato e accetta il secondo come infermiere. È il poeta che consola l’'umanità! I ruoli possono essere invertiti a piacere» (p. 20).

Poi egli dà il senso del suo verso in una strabiliante prosa poetica. Questa: «Si sogna soltanto quando si dorme. Sono parole come sogno, nullità della vita, periodo di transizione sulla terra, la preposizione forse, il tripode dissestato, che hanno insinuato nelle vostre anime questa poesia madida di languore, simile al marciume. Passare dalle parole alle idee: non c’è che un passo./ I turbamenti, le ansie, le depravazioni, la morte, le eccezioni nell’'ordine fisico o morale, lo spirito di negazione, gli abbrutimenti, le allucinazioni servite dalla volontà, i tormenti, la distruzione, i disordini, le lacrime, le brame mai sazie, gli assoggettamenti, la penetrante potenza immaginativa, i romanzi, l’'imprevisto, quel che non bisogna fare, le proprietà chimiche del misterioso avvoltoio che spia la carogna di qualche illusione morta, le esperienze precoci e abortite, le tenebre a guscio di cimice, la terribile monomania dell’'orgoglio, l’'inoculazione di profondi stupori, le orazioni funebri, le invidie, i tradimenti, le tirannie, le empietà, le irritazioni, le acrimonie, gli insulti aggressivi, la demenza, il tedio, gli spaventi ragionati, le strane inquietudini che il lettore preferirebbe non provare, le smorfie, le necrosi, le trafile insanguinate attraverso le quali si fa passare la logica ridotta agli estremi, le esagerazioni, la mancanza di sincerità, le noie, le sciocchezze, il cupo, il lugubre, i parti peggiori degli omicidi, le passioni, i clan dei romanzieri di corte d’'assise, le tragedie, le odi, i melodrammi, gli estremi presentati per sempre, la ragione impunemente fischiata, gli odori di pulcino bagnato, le insulsaggini, le rane, i polpi, gli squali, il simun dei deserti, quel che è sonnambulo, losco, notturno, sonnifero, nottambulo, viscoso, foca parlante, equivoco, tubercolotico, spasmodico, afrodisiaco, anemico, orbo, ermafrodito, bastardo, albino, pederasta, fenomeno da baraccone e donna barbuta, le ore spaventose dello scoraggiamento taciturno, le fantasie, le acrimonie, i mostri, i sillogismi corruttori, le oscenità, chi non riflette come il bambino, la desolazione, questa mancinella intellettuale, i cancri profumati, le cosce delle camelie, la colpevolezza di uno scrittore che rotola sul declivio del niente e si autodisprezza con grida di gioia, i rimorsi, le ipocrisie, le prospettive vaghe che vi tritano nei loro impercettibili ingranaggi, i pericolosi sputi sugli assiomi sacri, la gentaglia e i suoi stimoli insinuanti, le caducità, le incapacità, le bestemmie, le asfissie, i soffocamenti, le sfuriate davanti a questi carnai immondi che arrossisco a nominare: è giunto il momento di reagire contro ciò che ci offende e ci umilia così dall’alto» (pp. 20-22).

Oggi, proprio come scriveva centoquarant’a anni fa Lautremont, c'’è veramente tanto che ci offende e ci umilia dall’'alto di un governo immondo e disumano. Per questo ha ragione Nichi Vendola quando, in una delle sue più belle poesie della raccolta “”Ultimo mare””, inserita nella sezione “”Lamento in morte di Carlo Giuliani”” (eravamo a Genova nel 2001 e la polizia, quella volta presente in città su mandato e direttive del cavaliere calvo e bassotto), scrive: «”Genova”// Lascia ch’'io pianga muto/ senza quel tuo limone/ limone asfalto e sputo/ astio del venerdì// la morte all'’imbrunire/ lontano dal cancello/ chiuso dentro l’'imbuto/ di un altro carosello// di carri armati e irati/ di un celerino a uccello/ ti spezzano i carati/ del sogno tuo degli anni// l’'ora del manganello/ rintocca nei tuoi panni/ l’'ostia di nuovi giorni/ si frange a questo luglio// arca del mai partire/ arco del tuo finire/ freccia dentro uno scoglio/ fumogeni a morire».