La Favola e la Storia







Su Raffaele Nigro

di Antonio Errico


C’è una cosa che Raffaele Nigro non dice nelle sue “Maschere serene e disperate” (Manni,2008). C’è una cosa che non dice perché non deve essere lui a dirla , non spetta a lui dirla, perché, come pensava Elio Vittorini, è grande umiltà essere scrittore.
C’è una cosa che non dice, quest’uomo che si guarda allo specchio e si ritrova grigio come suo nonno, quest’uomo che aveva capelli e barba e occhi crespi e neri come i briganti che ha narrato. C’è questa cosa che non dice: che col tempo la sua scrittura ha preso sempre più nitore, si è fatta sempre più essenziale,è diventata sempre più intima, interiore, si è sempre più impastata di esperienze, trasalimenti, umori, paure, bellezze.

Non dice che la sua scrittura si è fatta come il suo tempo: che come il tempo può essere acqua o vino o olio; è una scrittura che scava dentro i giorni, che ad essi rassomiglia, alla loro verità, alle maschere che indossano –serene o disperate-, alle loro ansie, alle loro tenerezze, ai lori stupefatti e antichi pudori.
Non dice, Raffaele Nigro, che la sua scrittura adesso ha la stessa sapienza della maturità dei suoi sessantun anni, la stessa malinconia, l’incredulità che talvolta lo sorprende, la stessa misura, la stessa sobrietà, lo stesso fascinoso disincanto; non dice che ha la stessa consapevolezza che non si può sprecare un solo istante, che non si può indugiare a rispecchiarsi nell’immagine che ritorna nel ricordo a indispettire oppure a disperare, che ogni frase, ogni parola, proviene dai fondigli della memoria e lo porta a riflettere sul silenzio da cui proviene, sul dubbio infinito verso cui va, certamente accompagnato, come sempre, da quell’arcangelo di cui porta il nome.

Questo libro di Nigro è una confessione: uno di quelle sfide col coltello che ogni grande scrittore fa a se stesso nel punto in cui sente dentro, in modo prepotente, che la letteratura deve aderire esattamente all’esistenza, che deve ridurre, fino ad azzerare, il grado di finzione, che le parole devono essere capaci di mostrare tutto quello che hanno dietro, che hanno dentro, che hanno in fondo: devono dire la sostanza, anche quando è soltanto rimasuglio, quando è passato consumato, quando è memoria stanca, sconsolata.

Però c’è una cosa che Raffaele Nigro dice. Lo fa con quella sorta di celata scaramanzia con cui a volte si vuole proteggere le cose a cui si crede immensamente, quelle in cui si spera, che si amano. Dopo aver fatto il conto degli anni, con il piglio del ragioniere che non è, dissipa quel tedium vitae che talvolta accerchia e stringe, pensando a certi autori che hanno cominciato a sessant’anni e che a novanta sono ancora geniali. Così si dice che domani, svegliandosi, potrà veder maturare i semi del romanzo che aspetta da sempre, potranno farsi mature le idee che si erano affacciate alla mente anni fa. Forse quel romanzo è Santa Maria delle Battaglie .

Racconta come un cantastorie, Raffaele Nigro: come uno di quelli che giravano per le fiere e per i santuari “ accompagnati da uno strumento a corda e un telone dipinto” . Racconta così: generando narrazione dalla narrazione, disegnando volti in continuazione, attraversando i tempi, rappresentando luoghi, sovrapponendo realtà e finzione, cronaca e storia, menzogna e verità, passato e presente. Racconta inventando le sue storie dai fatti accaduti o dal nulla, e ad ogni pagina sono nomi nuovi, luoghi diversi, destini che si incrociano, vite che si diramano, si spandono, non finiscono mai. Questo suo romanzo nuovo, Santa Maria delle Battaglie (Rizzoli,2009), sarebbe potuto continuare all’infinito. Come possono – avrebbero potuto – continuare all’infinito i racconti dei cantastorie. Perché qui il racconto si rigenera ad ogni apparizione di personaggio, ad ogni innesto di motivo, restituisce energia alla voce silenziosa della statua di Maria delle Battaglie, sistemata tra i soppalchi di una libreria, che tenta il miracolo di svegliare dal coma una ragazza bellissima che si chiama Federica. Così Maria racconta, per risvegliare. Racconta per guarire, per restituire memoria, per ridonare la voce.
“Saper raccontare è un dono. Bisogna avere lena. Io ne ho e lo ritengo un dono”, dice Maria delle Battaglie dal suo cantuccio nella libreria.
Poi, per saper raccontare, bisogna avere pazienza, trovare il ritmo giusto, crescersi dentro una fantasia; bisogna aver conosciuto ogni felicità e ogni dolore oppure fingere di averli conosciuti; bisogna ricordare e fingere di aver scordato, bisogna aver ascoltato racconti, aver fatto la veglia, avere voglia di ripetere lo stesso racconto. Bisogna sapere essere l’altro, pensare come l’altro, provare le emozioni dell’altro, entrare nel suo mondo, conoscere i suoi sogni, saper illudere e disilludere in un tempo solo.
Poi bisogna conoscere il mestiere di mettere una dietro l’altra le parole facendole risuonare come sonagliere di cavalli al passo quando è ancora scuro, di affabulare, di mescolare il realismo e la magia. A leggere questo e gli altri romanzi di Nigro, e le cose che ha scritto anche prima che arrivasse “I fuochi del Basento”, si vede ad ogni pagina, riga dopo riga, che conoscere a perfezione l’arte d’incantare. Perché, probabilmente, raccontare non è altro che un incantamento, una malia.

Nigro incanta con le sue invenzioni di nomi e nomignoli, con la scrittura che impasta parole provenienti da linguaggi disparati, con gli incastri di vicende un po’ vere e un po’ inventate, con riferimenti storici e fantasiose suggestioni, con proverbi, leggende, superstizioni, acute psicologie e fatti d’amore, di miseria. Di Sud profondo, triste, spavaldo, antico, ribelle, rassegnato. Di presente doloroso, intenso, pietoso, senza miracoli, gelido, infinito. Della frenesia di Magdalena, della solitudine sconfinata di Bruno Cacciante, dell’ umilissima consolazione di una statua.
Accade talvolta – accade ai grandi narratori, ai narratori epici – che un qualche personaggio sia una proiezione dell’autore, che riveli una sua coscienza profonda, una tensione esistenziale, una sua visione del mondo.
In questo romanzo c’è un personaggio che ha la fisionomia narrativa dell’autore. E’ Colantonio Occhiostracciato. In un giorno di temporale, un salice colpito da un fulmine si abbatte sul pagliaio dove l’ortolano Colantonio si è rifugiato, squartandogli la faccia e bruciandogli un occhio. Quando si risveglia dal tramortimento, l’uomo scappa via e comincia ad urlare certi versi che non si sa da dov è che li prende. Abbandona il lavoro, la moglie, sei figli, e comincia a girare di paese in paese, “ con una tiorba sulle spalle e un rotolo di tela dipinta sotto il braccio”. Racconta storie strane, legate con la rima, ispirate forse da un angelo o forse da un demonio, e così Occhiostracciato diventa “ maestro di poesia e cantastorie”.
Questo romanzo è come una grande ballata popolare. Ha quei toni a tratti concitati e a tratti pacati della ballata. Ha la memoria collettiva , le visioni, la freschezza, la visionarietà, i fantasmi, le fantasticherie, la coralità della ballata. Ha i passaggi rapidi, gli snodi narrativi, gli effetti che ci vogliono per tenere avvinti i bambini adulti e gli adulti bambini intono alla voce del cantastorie che si ferma al centro della piazza e attacca a raccontare: venghino, signori, venghino a vedere e a sèntere.
Ha ragione Raffaele Nigro quando dice che non solo di briganti e ladroni si è sempre raccontato, ma che con briganti e ladroni comincia la storia e forse anche la letteratura d’oriente e d’occidente.
Infatti: in principio fu Caino che tese l’agguato ad Abele e alla voce divina che gli domandava dove fosse il fratello, rispose che lui non era il suo custode. Poi Cristo ebbe per discepolo e sodale uno che lo vendette per trenta denari, per compagni sulla croce un paio di ladroni e un fior di brigante come Barabba per rivale in uno scambio di prigionieri.
L’ Iliade comincia con il rapimento di una donna, l’insulto di Tersite (antieroe brutto gobbo zoppo in un mondo di eroi belli invincibili forti) nei confronti dei potenti, l’assedio di una città che si conclude con un’ invasione per mezzo dell’ inganno banditesco di un cavallo di legno.
Poi le Mille e una notte con Alì Babà e i quaranta ladroni, con il marinaio Sindbad.
Banditi, ladroni, masnadieri, hanno sempre richiamato l’attenzione di storici, poeti, romanzieri, saggisti, cantastorie di ogni luogo, di ogni tempo e di ogni qualità, per cui la produzione di versi, prose, cronache, biografie, diari, risulta pressocchè sterminata.
In tutta questa materia mette le mani Raffaele Nigro con un libro che intende essere – ed è – ambizioso e barocco nello stesso modo e nella stessa misura di come è affascinante e prezioso, leggero, esatto, molteplice ( nella valenza che gli ultimi tre termini assumono nelle Lezioni americane di Italo Calvino).
Nel seguire la fortuna che il brigante “ come soggetto letterario, sociale e politico, ha incontrato lungo i secoli”, in Giustiziateli sul campo ( Rizzoli, 2006), Raffaele Nigro combina sapientemente il mestiere di storico e quello di narratore, riesce a connotare la sua storiografia ragionata di quel movimento che appartiene ad un racconto, il resoconto talvolta ha gli stessi toni del canto che compare tra le pagine, la rete di riferimenti, di rinvii, di elementi bibliografici sembra che abbia la stessa natura di una trama, i nomi di figure leggendarie o sconosciute diventano personaggi di un lungo racconto.
E il narratore che spesso cerca di celarsi dietro l’oggettività delle cronache e dei riferimenti, si fa presente nello stile, nell’organizzazione delle parti, nell’articolazione dei paragrafi: onnisciente come un narratore dell’Ottocento; umile come ogni ricercatore che sa bene che tutta la sua conoscenza dipende solo dalla materia; ostinato come uno storico convinto che in qualche caverna del tempo si possa nascondere una scaglia di verità. Un po’ per la sua antica passione per i briganti, un po’ per una scelta metodologica, Nigro si comporta come l’orco della fiaba evocato da Marc Bloch nella sua Apologia della storia : va dove fiuta carne umana perché sa che là è la sua preda.
Ma il rapporto che Raffaele Nigro stabilisce con la tematica – o meglio la problematica- del brigantaggio, soprattutto quando si fa più vicina nel tempo, prossima alla complessità che caratterizza l’epoca moderna, è connotato dalla dinamicità di una condizione che probabilmente può essere riferita a quella fisionomia della storico delineata da Edward Carr nelle Sei lezioni sulla storia.
Così Nigro è uno storico che è parte della storia: si muove tra le tante, innumerevoli, figure di un corteo che avanza dal fondo del passato per sentieri tortuosi, oscuri, spesso sconosciuti, a volte mai intrapresi, a volte percorsi soltanto per brevi tratti, assumendo con se stesso e con il lettore l’impegno di esplorarli quanto più possibile, di raccontarli con onestà, anche se con inevitabile, oggettiva parzialità: perché quello che si vede è determinato dalla posizione che si assume, intenzionalmente, dichiaratamente. La neutralità dello storico è una menzogna, più o meno consapevole.
Nigro non si pone né al di fuori né al di sopra della sua ricerca; spesso entra nelle vicende ed esprime giudizi in qualche caso espliciti, in altri mediati dalla proposta di testi ( il passo di un saggio, un romanzo, una legge, un canto, una leggenda).
Dietro questi nomi di briganti ci sono destini di ventura e di sventura, fenomeni di cultura, storie di marginalità, d’amore e di paura, d’onore e di miseria, di verità nascoste, di prevaricazione e disuguaglianze sociali, scelte di politica, visioni del mondo, della vita, concezioni del bene e del male.
Nigro sa far scorrere per tutto il libro, a volte in modo affiorante, a volte sotterraneo, i racconti e le storie di figure d’uomini che il tempo, la letteratura, il cinema, il racconto orale, hanno trasformato in mito “ che affascina per alone romantico e che incarna l’aspirazione dell’uomo alla libertà e all’equa applicazione del diritto”.
In questo libro storia e racconto sono strumenti che contribuiscono – nel modo in cui possono, nella misura in cui possono- a sottrarre fatti e fenomeni all’ingiustizia del pregiudizio, da una parte, e dell’acritica esaltazione dall’altra, restituendo briganti e brigantaggi alla loro natura umana: disperata, dolente, buona, cattiva, sincera, bugiarda. Come ogni altra natura umana. Esattamente come ogni altra.