Ancora un anno...per Salvatore Toma
Maurizio Nocera
Un paio d’anni fa, ma so per certo che era l’aprile 2007, chiesi all’editore Lorenzo Capone, di Cavallino, di aiutarmi a fare una piccola pubblicazione che ricordasse il mio povero amico poeta Salvi Toma (io l’ho sempre chiamato così a differenza di Verri che lo chiamava Totò Franz e dei suoi compaesani che lo chiamavano semplicemente Totò). L’editore mi rispose che mi avrebbe fornito l’indispensabile a che potessi procedere con facilità. Fu così che venne alla luce quel piccolo ancora “inedito” libro che ha per titolo “Ancora un anno (luglio 1978 – gennaio 1980)”, poesie di Salvatore Toma.
Ho virgolettato inedito perché in effetti non è così. Sia pure in un momento particolare della vita del Magliese il volume “Ancora un anno” era stato pubblicato proprio dallo stesso editore ma, guarda un po’!, quando accade come accade, questo libro, come d’altronde è accaduto a tutte le altre raccolte poetiche apparse in volume di Salvi, non ebbe molta fortuna, nel senso che rimase per molto tempo invenduto tanto che poi l’editore fu costretto ad inviarlo al macero. Purtroppo, dopo il tanto tempo passato, arrivai io alla casa editrice di Cavallino, e non potetti più fare nulla per evitare l’invio di quel libro nell’inferno della carta. Il suo destino era già stato deciso e per di più compiuto. Capone se ne dispiacque un po’, ma poi, anni dopo, cioè 2007, si è riscattato rimediandomi la nuova edizione.
Ed ora, ecco davanti a me questo piccolo volume in formato -16°, con la prima di copertina rosa di camelia color carne. Al centro una splendida carta assorbente colorata di Antonio Massari, intitolata “Salvatore Toma Capo Indiano”. Per dare meglio l’idea, Massari aveva “depositato” questo suo disegno su un altro disegno di Edoardo De Candia, a sua volta intitolato “Mandria di bisonti”, quindi aveva costruito attorno alla testa del poeta un’aura di cerchi concentrici che bene danno l’idea del copricapo del pellerossa. E tutti sanno che Toma un po’ pellerossa lo era per davvero. Tanto che, proprio questa raccolta di poesia l’aveva dedicata ai suoi adorati «indiani d’America / alla pacifica tribù pellirossa Duwanisch / e a Capriolo Zoppo / a tutti gli oppressi e morti di violenza».
Che bellezza, che incanto! A pochi chilometri da Lecce, a Maglie, esisteva un pellerossa nostrano, del quale pochi conoscevano la storia e pochissimi avevano letto le sue poesie libere e leggere come piume di scricciolo d’inverno.
In apertura al nuovo libro “Ancora un anno” (2007), avevo fatto una breve prefazione che desse l’idea dell’operazione culturale e che servisse come memoria della continuità della poesia del Magliese. Avevo scritto che il 17 marzo 1987, Salvatore Toma, il poeta-Atahualpa di Maglie, che tanto aveva amato i ‘nativi’ di ogni parte del pianeta, moriva che non aveva ancora compiuto 37 anni. Chi lo conosceva, chi lo amava, chi gli era amico (pochissimi), rimase in dolorosa sospensione per diverso tempo. Nessuno di noi, fino ad allora, aveva messo in conto che un nostro amico poeta poteva anche morire, e morire giovane.
All’inaccettabile evento Antonio L. Verri serrò il suo sgomento nella piega più profonda del suo io. Non parlò per anni, se non per rispondere alle incombenze della quotidianità. Però continuò a pensare al suo Totò. E scrisse. Ad esempio cose così: «Forse la morte non porta / via tutto, o forse volevo / solo dirti di un luogo di luna, / di un castello imbiancato / dai respiri di Idrusa».
Chi qui oggi scrive, invece, per diversi giorni vagabondò in lungo e in largo per il Salento alla ricerca di una risposta plausibile, che mai trovò. Con Verri la storia poetica di Salvatore Toma ebbe un seguito. Il Centro culturale “Pensionante de’ Saraceni” di Caprarica di Lecce, da lui fondato e diretto, continuò a pubblicare su riviste e giornali vari articoli, messe a punto, lettere, micro-macro storie che riguardavano il poeta magliese.
Fino a quel nevoso marzo 1987, Toma era riuscito, grazie ai soliti amici di sempre, a pubblicare le seguenti racccolte poetiche: “Poesie (Prime rondini)” (Roma, Gabrieli, 1970); “Ad esempio una vacanza” (Roma, 1972); “Poesie scelte” (Catanzaro, Ursini, 1977); “Un anno in sospeso” (Poggibonsi, Lalli, 1979); “Ancòra un anno” (Cavallino, Capone Editore, 1981); e l’ultimo suo capolavoro letterario, “Forse ci siamo”, edito appunto dal Centro culturale “Pensionante de’ Saraceni” nel 1983 che, tramite il solito Verri, continuò a tenere viva la poesia di Toma. Nel 2002, edito da Amaltea edizioni, venne infine pubblicato il testo postumo “Cara Babi ti amo da morire sempre (lettere)”.
Ma qualcosa di straordinario era già accaduto prima. Nel 1999, su iniziativa di Maria Corti, fu reso il più bell’omaggio a Totò Toma che, vivo lui, sarebbe stato l’uomo (poeta) più felice del mondo: il “Canzoniere della morte”, curato dalla stessa Corti per la collanina bianca della Giulio Einaudi Editore. Era stato quello il desiderio più grande del Magliese. Purtroppo se lo vide esaudito solo dopo la morte.
Ed ora ecco la raccolta “Ancòra un anno”, per la prima edizione del quale Toma soffrì non poco. Per lui non fu facile pubblicarla. La sua proposta fu rifiutata praticamente da tutti gli editori ai quali la inviò. Per di più ci fu qualcuno, come ad esempio Maurizio Cucchi, all’epoca responsabile della collana poetica della Mondadori che, non solo osteggiò questo libro, ma trovò pure il modo di rispondere con lettera al poeta in modo alquanto sgarbato. Alla fine però, grazie all’editore Capone, il libro vide la luce. Era il 1981. Il volume di 120 pagine, stampato dalle Grafiche Panico di Cutrofiano (non più esistenti), rappresentò l’ottavo volume della Collana di poesia diretta da Nicola G. De Donno e Donato Valli. Oggi sappiamo che dietro a quella pubblicazione c’era anche la mano del buon Antonio L. Verri, da sempre amico del Toma e, in quel periodo, vicino alle iniziative dell’editore di Cavallino.
Il pregio di questa raccolta poetica sta anche nella bella Introduzione di Donato Valli il quale, sin dagli esordi poetici del Magliese, aveva creduto in lui. Tanto che in essa, scrive «Salvatore Toma è un giovane di Maglie che non è alla sua prima esperienza poetica; ha pubblicato altri quattro o cinque libretti di poesia ed ha fatto qualche sporadica apparizione su giornali locali e su una rivista di grande impegno culturale. Ma la sua notorietà è rimasta circoscritta nella cerchia di pochi intimi, che sin dall'inizio hanno creduto nelle possibilità del giovane e hanno alimentato in lui questa tenera fiammella, impavida anche quando il soffio dei venti contrari sembrava dovesse affiochirla o spegnerla per sempre. Ché anzi, quanto più la realtà circostante si rivelava turpe e ingrata, quanto più sorde sembravano le orecchie del mondo alle sirene della poesia, tanto più quel focherello iniziale prendeva forza e vivacità, quasi che ad alimentarlo fossero proprio le avversità e la tempesta che intorno mugghiava sempre più violenta. Non è, beninteso, un fenomeno isolato nella geografia poetica della regione e, certo, della nazione ma è uno dei pochi che dal disadattamento sociale, dallo sconvolgimento di valori e di istituti abbia tratto motivo non di ribellioni formali o di realistiche denunzie o di fughe liberatorie (anche se tutto ciò in egual misura entra a far parte dell'impasto lirico di Toma), ma di vita fantastica, quasi alimento riflesso dell'io, consustanziatosi nel ritmo del sangue e nella virulenza del sogno.
Pressato dalle immani catastrofi dell'umanità e della natura, il poeta magliese ha compensato la sua solitudine con una mitopoiesi turgidamente, a volte truculentemente affollata e barocca; sconfitto sul piano delle attese, egli ha esorcizzato la sua paura con un coraggio paradossale e spavaldo; negato alle illusorie consolazioni della vita e della realtà, ha ricreato un suo mondo di purezza irreale e di vita esangue nel quale si è arroccato come in un guizzo di difesa ultima, invincibile. Scaturisce da questo strenuo agonismo di realtà e di sogni contrapposti il tessuto fantastico della poesia: da una parte l'ostile società degli uomini, arida e oscura, dall'altra l'opulenza del sogno, la purezza dell’io, libratosi libero su paesaggi incontaminati, sfavillanti di improvvisi lucori, cullati da nenie dolcissime, irrorati da acque limpide come uno sguardo vergine e infantile».
Che dire? Si tratta di poche righe iniziali dell’introduzione di Vallima da esse è facile capire che ci troviamo davanti non al solito verseggiatore della domenica ma ad un poeta vero che dà senso e leggerezza anche alle più pesanti parole. E poi basta leggere i suoi versi per convincersi che la sua poesia non è robetta da salotti cucchisti. Qui a fianco ne pubblichiamo una che è sufficiente a far comprendere la stoffa del poeta.