Lo stupore e l'indicibile




Il funambolo sull’erba blu di Maria Pia Romano ( Besa, 2008)

di Antonio Errico

La condizione che attraversa questa poesia che Maria Pia Romano propone nella raccolta con il titolo de Il funambolo sull’erba blu, edito da Besa, è lo stupore. E’ lo sbalordimento per le cose che accadono, per i sentimenti che si provano, per le parole che si dicono, per i pensieri che maturano nel tempo o che fiottano improvvisi, per l’amore e il disamore, le passioni e le apatie, euforie e malinconie, per i sogni ed i risvegli impietosi, senza incanto.
Non c’è nulla di già visto: tutto ha la cifra di una verità che arriva inaspettata, come un dono o come una promessa misteriosa pronunciata per amore, come impegno nei confronti della vita, del destino.
Ancora una poesia d’amore. Ancora un altro amore. Perché non c’è mai nulla, non ci può essere mai nulla, fuori o senza quell’amore che si avverte sulla pelle, nelle vene, nella mente, che cattura ogni momento, che fa fremere e aspettare, che richiama, che trascina, che abbandona, che condanna al naufragio e che poi salva anche portando alla deriva.
Ancora un altro amore. Tenero. Sincero. Anche ingenuo, qualche volta. Dolce e acerbo. Un amore di memoria e di parole. Perché la memoria e le parole sono le sole cose che restano, che vanno oltre il tempo e il luogo dell’inizio e delle fine. Quello di Maria Pia Romano è soprattutto un amore ripensato e rivissuto attraverso la memoria. Non il ricordo, un solo ricordo, una somma di ricordi, ma la memoria, quella rete elaborata e strutturata, tessuta nodo con nodo, dolore con dolore, felicità con felicità, emozione con emozione; memoria delle esperienze e delle fantasie, delle presenze e delle assenze, delle fughe e dei ritorni.
Ancora una poesia per un amore: annunciato da una strega, come in una fiaba rovesciata, come in quella fiaba che è sempre la storia di un amore, fin quando dura il pensiero, fin quando il cuore riesce a reggere e a contenere tutta la sua grazia e la sua disperazione.
Dice Maria Pia Romano: “siamo ciò che amiamo”. Di conseguenza, fuori dall’amore non c’è niente; ma non c’è niente neanche prima e neanche dopo l’esperienza dell’amore; prima e dopo c’è soltanto il deserto dell’assenza, il vuoto di ogni senso. Siamo ciò che amiamo: quindi se non amiamo qualcosa noi non siamo niente; amare significa essere, esistere, pensare il proprio sé in relazione all’altro, darsi una motivazione o almeno una giustificazione.
Soprattutto si ama il tempo. Il tempo dell’attesa, della parola, del silenzio. Il tempo dei sogni, delle passioni, delle stagioni. Il tempo dell’immaginare qualcuno che arriva oppure che torna.
Poi dice: “ e l’amore si vive e non si spiega”. Esattamente quello che diceva Pirandello a proposito della vita: o si vive o si scrive.
Allora l’amore, come la vita, è l’inspiegabile; talvolta – spesso – è anche l’incomprensibile. E’ quella condizione che non annulla la ragione ma va oltre, supera il confine della consapevolezza; è l’associazione improvvisa che si stabilisce tra un’incognita e una certezza, è quella zona franca che permette il maturare di un’ altra identità, che rappresenta la combinazione magica di diverse storie.
L’amore non si può nemmeno dire. Si può soltanto chiedere il conforto di metafore consunte, di simboli che si compongono di stratificazioni di tempo e di immagini. Con questa condizione dell’indicibilità dell’esperienza d’amore fa i conti la poesia di Romano. Spesso la pregnanza semantica è tutta consegnata al silenzio. Rinunciare alla parola è un modo di attribuire significato al gesto, allo sguardo, ad un singhiozzo, ad un linguaggio che rinuncia alla convenzione per conquistare l’essenza. Ma la poesia è un corpo di parole che si nutre di parole, che non può fare a meno delle parole. Spesso di parole semplici, spontanee, essenziali, leggere, seducenti, immediate quasi, quotidiane, autentiche, sincere, prese in prestito dal desiderio di un bacio, dal movimento delle onde, da una giornata di sole, da un sogno, una felicità, una stupenda illusione.