Un viaggio che non finisce mai

















La fotografia è di Maria De Filippis

Ritorno da Auschwitz
Grazia Pia Licheri

Si è concluso il 17 febbraio scorso il viaggio del IV ed ultimo Treno della memoria del 2012, organizzato da Terra del fuoco – mediterranea, che ha ospitato al suo interno più di 700 partecipanti, tra studenti dei licei e delle università pugliesi e una delegazione calabrese. Ricordare la crudeltà e la lucidità con cui nel corso della seconda Guerra mondiale i nazisti, guidati da Hitler, hanno deportato e poi sterminato milioni di ebrei, oppositori politici e persone estranee ai canoni di perfezione ariana, in virtù di un progetto di depurazione del mondo dai “parassiti della società”, è un dovere morale di ogni individuo, ancor più oggi che possiamo entrare in contatto con gli ultimi superstiti dei lager, testimoni diretti di quella barbarie con cui l’umanità ha toccato il fondo.
Tutti i ragazzi che hanno partecipato all’iniziativa si sono dimostrati contenti della scelta e desiderosi di condurre su quel treno nuove persone, affinché possano provare la loro stessa esperienza, che si è rivelata “altamente formativa – come afferma Sara, studentessa di Giurisprudenza dell’università del Salento – tutti conosciamo la shoah, ma vedere quei luoghi di fronte a te fa capire che quelle non sono soltanto pagine di storia. Se prima mi sentivo estranea a certi avvenimenti, ora posso dire di essermene avvicinata molto”. È importante però fare tesoro delle sensazioni e delle conoscenze incanalate in quei luoghi per far sì che episodi razziali non accadano più sotto nessuna forma. “Non si tratta solo del passato, perché assistiamo quotidianamente a manifestazioni xenofobe. Il primo insegnamento del viaggio è che la diversità genera ricchezza”.
“La vista di Auschwitz e Birkenau ha suscitato forti emozioni, ma anche un senso di vuoto e di impotenza, a tratti di incredulità”. Sono queste le parole di Sabrina, studentessa di Lettere. “Le parole della guida davano vita a ciò che è accaduto, soprattutto nel Campo base, mentre Birkenau - aggiunge - è un esempio di desolazione totale, immerso in un bosco di betulle che sono le testimoni mute della tragedia passata”. È stato un viaggio importante, che probabilmente non avrebbe avuto modo di vivere se non fosse stato organizzato in questa dimensione di condivisione comunitaria con tanti altri giovani.
Una full immersion che supera ogni aspettativa: così Mariella, studentessa di Lettere, descrive il Treno della memoria. “C’è un motivo preciso se facciamo tante ore di treno e andiamo in un periodo freddo, perché questo favorisce l’immedesimazione. È una grande esperienza umana e culturale, che consiglio a tutti, anche grazie alle assemblee alle quali abbiamo partecipato e che sono state molto utili per il confronto scaturito”. Il momento più emozionante per lei è stato quello in cui è stato chiesto ad ognuno, durante l’assemblea plenaria svoltasi l’ultimo giorno, di esprimere ciò che ha provato vedendo i campi.
Antonio, che studia Scienze politiche, l’ha definito un’esperienza “bella e toccante”, il cui senso si comprende pienamente solo a posteriori, perché necessita di essere interiorizzato. “Ci tornerei di nuovo, ma forse la seconda volta in maniera intima ed individuale”.
Fabiola, di Lettere, non credeva nella buona riuscita di questo viaggio, perché è partita senza conoscere alcun partecipante, eppure la compagnia con cui si è trovata in treno e in stanza ha manifestato condivisione e solidarietà. “È stato bello, non avrei mai pensato di dividere stanze e bagni con tante persone e di passare le giornate con ragazzi più piccoli. È un’esperienza che consiglio, perché si vivono tante emozioni e si conoscono punti di vista differenti”.
Secondo Roberto, altro studente della stessa facoltà del Salento, “ogni persona con un minimo di sensibilità storica deve partecipare a questo viaggio, perché si toccano con mano i luoghi in cui sono accadute crudeltà terribili e perché nessuno ci fornisce la certezza che non si verificheranno più. Siamo l’ultima generazione che può entrare in contatto con i testimoni diretti di questi eventi”.
Fabio, della facoltà di Economia, ha scelto da anni di svolgere il ruolo di educatore all’interno del Treno, che è “l’unica possibilità di portare tanta gente a percepire realmente quello che erano i lager. Siamo circa 35 educatori, semplici ragazzi con la passione e la voglia di offrire un servizio utile alla comunità. L’obiettivo che speriamo di raggiungere con il nostro lavoro volontario è trasmettere il significato dei campi e l’importanza di fare gruppo, abbattendo le difficoltà che si incontrano nel conoscere persone nuove”.
Laura, studentessa di Filosofia e responsabile del Treno della memoria, parla della possibilità di “dare un’opportunità educative alle scuole. La storia – spiega – non deve essere qualcosa che si studia per l’interrogazione, ma serve per acquisire le lenti di ingrandimento con cui leggere il presente”. Esprime la sua soddisfazione per il buon lavoro svolto dal team di educatori, e sottolinea che questa esperienza non si esaurisce nelle giornate del viaggio, ma è necessario rivedersi anche dopo, attraverso incontri e altre iniziative, per non esaurire quell’entusiasmo e la voglia di contribuire al miglioramento del futuro, rendendo quel viaggio verso i lager “un percorso interiore, una seduta di psicanalisi collettiva che non finisca mai”.

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La triade che costituiva il fulcro del processo concentrazionario dei nazisti in Polonia per la cosiddetta “soluzione finale”, cioè lo sterminio di tutti gli ebrei d’Europa, era formata dai campi di Campo base o Auschwitz I, Birkenau o Auschwitz II, Monowitz o Auschwitz III.
La giornata centrale all’interno del programma del Treno della memoria è stata proprio quella della visita ai lager Auschwitz I e II, nel corso della quale tutti i partecipanti hanno percorso quel suolo, che solo pochi decenni fa era attraversato da corpi senza salute e senza dignità, quasi in punta di piedi, per non rompere la magia di un silenzio che sa di sofferenza e devozione, e certamente in punta di cuore, per accostarsi con discrezione e umiltà ad un dramma troppo grande per essere compreso da chi non lo ha vissuto in prima persona.
Questo “pellegrinaggio laico” nei due campi polacchi si è svolto il 14 febbraio. È un caso singolare che l’appuntamento più forte sia avvenuto il giorno festa degli innamorati. D’altronde, scegliere di vivere, anche solo per poche ore, dietro le quinte di alcuni dei più efferati teatri dell’orrore che la storia abbia mai conosciuto, cos’è, se non amore per l’umanità e per le generazioni future?
Auschwitz si apre con un cancello sovrastato da una scritta di apparente benvenuto, ricca di promesse, ma su cui aleggia una cinica ironia: “il lavoro rende liberi”. Il Campo base, infatti, nasce come campo di concentramento, ma funziona da subito come campo di sterminio.
L’immersione in questo luogo è un fiume di emozioni: il piazzale dell’appello; le sale ricche di oggetti personali riutilizzati dai tedeschi, quali occhiali, protesi, pentole, scarpe, vestiti, capelli; il blocco n. 11, detto “della morte”, dove si svolgevano interrogatori, torture e prigionie, e che conteneva la cella 18 in cui padre Massimiliano Kolbe si fece uccidere al posto di un giovane uomo; il muro della fucilazione; i blocchi in cui si possono capire, con l’aiuto dell’immaginazione e della guida, le condizioni di vita, di salute e di igiene in cui i prigionieri erano tenuti. Tutto il percorso concorre a far comprendere l’atmosfera di disagio fisico e psichico che impregnava quei capannoni austeri umidi.
Ciò che più di tutto fa rabbrividire sono le camere a gas con gli annessi forni crematori, gli unici rimasti dopo la fine della guerra, perché ricostruiti con i pezzi originari. A pochi passi dalle abitazioni dove i bambini delle Ss giocavano godendo con spensieratezza della loro infanzia, un obitorio fu convertito in camera a gas provvisoria tra il 1941 e il 1942, per i primi esperimenti dai quali evinse con grande soddisfazione che era possibile uccidere tantissime persone contemporaneamente senza troppi spargimenti di sangue, semplicemente immettendo dello zyklon b attraverso il tetto. Fuori ci sono più di 10 gradi sotto lo zero, ma la sensazione di freddo improvviso che si prova entrando in queste stanze supera di gran lunga le temperature esterne. Si sente il gelo della morte.
Nel pomeriggio è la volta di Birkenau, ben 30 volte più esteso di Auschwitz. Bianche betulle ischeletrite innalzano i loro rami supplicanti verso un cielo cupo e pallido. Tutto intorno, una distesa di neve tace, ricopre con un velo di gelo anni di storia, di dolore, di terrore. È il vuoto quello che fa più male alla bocca dello stomaco, quando si entra in questo campo di sterminio.
Nel campo base puoi vedere i luoghi della morte, toccare le vetrate dietro cui sono conservati gli oggetti originari appartenuti agli internati, cogliere con lo sguardo i confini del lager, segnati da quel filo spinato che graffia gli occhi di commozione, perché immagini abbia disintegrato in un istante chiunque avesse tentato di spiccare il volo verso il mondo esterno, in un ultimo anelito di vita.
A Birkenau è tutto diverso. Ci sono ancora i famigerati binari, raffigurati su tutti i libri di storia, rotaie che si perdono nell’orizzonte, percorse a suo tempo dagli innumerevoli vagoni su cui centinaia di persone erano ammassate come merci, anzi, come animali condotti al macello. C’è qualche capannone superstite o attentamente ricostruito; ci sono cumuli di macerie sparsi qua e là, lapidi commemorative, fiori. Restano alcuni blocchi, come quello delle saune, ancora aperti al pubblico di visitatori e cosparsi di foto, che i deportati avevano condotto con sé pensando che avrebbero semplicemente iniziato una nuova vita in un altro luogo, come era stato detto loro. Non avevano torto, ma non era certo quello il tipo di vita che ipotizzavano, dipartendosi dai loro accoglienti focolai domestici.
Tutto il resto, a Birkenau, è un vero e proprio nulla. L’assenza e il deserto innevato, disteso su migliaia di ettari, provocano un senso di smarrimento. Camminando su quel suolo manca quasi l’equilibrio. È una strana vertigine, dovuta ai fumi dei forni crematori, all’overdose di ceneri umane che sembrano ancora aleggiare nell’aria e bloccare il respiro, all’ubriachezza da crudeltà di tutte le persone, coinvolte direttamente o indirettamente in questo processo di annientamento di un intero popolo.
Il momento più pregnante della visita è stato la commemorazione finale, nel piazzale di Birkenau, durante cui ognuno ha voluto sigillare l’emozione che lo ha accompagnato pronunciando davanti al microfono il nome del detenuto che lo ha colpito di più, tra quelli raffigurati nelle foto esposte nei blocchi, affinché anche il silenzio dei lager conosca un grido di solidarietà che possa essere tramandato alle future generazioni, perché non è mai troppo tardi per fare il proprio dovere e, forse, non è mai troppo presto per iniziare a cambiare il mondo.
Shoah, io ti ricordo.