Irene Leo: Sudapest

Poesia/ L'esordio di Irene Leo: Sudapest

L’arte è semplice: dar vita ai pensieri sotto forma di parole. Pensieri, quindi, non meri significati: tinte , sensazioni, deformazioni dell’anima , ultrapercezioni, temperature, rumori.

Vincenzo Ciampi

Si dice che l’incipit conti molto, in un libro. Se è così, quello di “Sudapest” (di Irene Leo; Besa Edizioni – Poet Bar, pagg.60,) è decisamente accattivante : “Corre il tempo su pattini a rotelle, le vedo, sfuggite a qualche mente distratta,stridule di pietra calcarea bianca. Polvere sugli intarsi delle ombre finemente concesse allo sguardo. Scoscesa la veste su anche sottili e dorate di sole, quelle di voci infantili e tiepide, affacciate all’albore della signora vita”.

C’è il Salento, non più luogo della memoria, ma della vita quotidiana: con le sue assenze e il suo accento, che si legge e si ascolta non fra le parole ma fra le immagini e i suoni. C’è il trionfo di una sinestesia prevaricante, perché la Leo non è mai monosensoriale, neppure nelle virgole: i suoni si vedono, le parole si guardano, gli uomini si odorano, i cieli si toccano. Sensuale e terrena, ma con lo sguardo sempre catturato dall’aria, senza distinzione fra prosa e poesia, nel realismo integrale dell’immaginazione. Narrazione povera di fatti ma ricca di eventi, atemporale, perché tutto è sospeso eppure vivente. Personaggi maschili come specchio di un’anima femminile, ovviamente barocca ma senza frivolezze, abituata a cibarsi di pane e poesia fin dall’infanzia.

Dialoghi secchi captati da ricettori ipersensibili nascosti nell’anima, come una spia del tempo e del luogo; embrioni di storie e di ricordi, che un giorno verranno raccontate, quando la scrittura accetterà la banalità del tempo e del luogo; storie per ora solo annunciate, e racchiuse nella sintesi che vuole essere poetica sempre e comunque, senza se e senza ma, anche omettendo di produrre versi, perché è questa l’inclinazione, musicale e fantasiosa, della scrittrice.

“Sudapest” racchiude il germe di storie future , ed è scritto su un pentagramma neppure troppo occultato .“Sonate”, infatti, sono definiti, i capitoli, o i quadri, affidati all’intepretazione della lettura – la Leo scrive per leggere, prima ancora che farsi leggere – che non sarà mai uguale ogni volta che sarà reiterata, come avviene per i pianisti di talento. Provare per credere.

Contrasti. Modalità espressive che da liriche diventano crude, senza passare per la prudenza del preavviso: “Quando apri le ali ancora e ancora, non trovi il mio corpo come nido a sorreggere le tue sottili braccia bianche di luna, né le rose asperse tra profumi di noi, e liquidi di pelle madida di amore a rendere loro vita”. Ma, poco dopo: “Le mie dita, invece, sono già ferite da scheggia di cane, dove mai più sorgerà primavera. Il miracolo non accade...”.

L’arte è semplice: dar vita ai pensieri sotto forma di parole. Pensieri, quindi, non meri significati: tinte , sensazioni, deformazioni dell’anima , ultrapercezioni, temperature, rumori . Esprimibili in nessun altro modo che questo. La concatenazione logica che dà luogo al linguaggio arriva dopo, perché i significati sono già catturati nel momento che precede l’atto della scrittura. Scrittura che quindi ne fluisce già depurata e libera dall’ansia di spiegare e raccontare. Scrittura ad alta definizione.

Sessanta pagine sono poche, e sono abbastanza. Poche per mantenere le promesse, abbastanza per renderle ambiziose, e giustificare l’attesa di percorsi più lunghi, lavori più strutturati. In “Sudapest” c’è l’autosufficienza del fatto compiuto, e la scommessa di future imprese. Si giustifica da solo, è scrittura pura, che non cerca compiacenza del lettore, si offre senza compromessi, non evoca similitudini di vita, non parla a chi legge di lui stesso. Non nasce per piacere, bensì per l’impellenza di esistere. Energia che, com’è noto, può stemperarsi solo sulla carta. Un atto di altruismo, dopotutto, oltre che di libertà.