Notte della taranta 2009












Angelique Kidjo, tra gli ospiti del concertone del 22 agosto


Notte della Taranta 2009

Dal 7 al 22 agosto torna nel Salento La Notte della Taranta, il grande festival dedicato al recupero e alla valorizzazione della pizzica salentina giunto quest’anno alla XII edizione. Il Festival toccherà le piazze dei comuni della Grecìa Salentina (Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Soleto, Sternatia e Zollino), di Alessano, Galatina e Cursi.

Il concertone finale, sabato 22 agosto, nel piazzale dell’ex Convento degli Agostiniani a Melpignano, con l'Orchestra Popolare “La Notte della Taranta”, diretta per la terza edizione consecutiva da Mauro Pagani. Ospiti della serata saranno Alessandra Amoroso, Eugenio Finardi, Angelique Kidjo, Noa e Mira Awad, Simone Cristicchi e il coro dei Minatori di Santa Fiora, Z-Star.


Lui aveva sempre spiegato ai suoi ragazzi a scuola che quando la parola sua se ne andava a festa, era come una arrampicata senza legacci verso l’estasi, che in cima rompa il vaso e tutto l’urlo s’arrovescia in terra, laddove s’apre libero, spampana e allaga.

Lo scrittore tarantato

Elisabetta Liguori

Il professore aveva sempre un fazzoletto rosso al collo.

Gli angoli annodati come orecchie tese sotto il pomo d’Adamo s’erano fatti lisi, ma lui lo levava di rado e sua moglie protestava. Non aveva ancora sessant’anni, il professore, ma già si parlava d’andare in pensione un anno di quelli prossimi, avendo cominciato presto alle scuole serali e coi ripassi ai ragazzi coi calzoni corti e le orecchie grosse a forza di farsele tirare da gran ciuchi quali erano. Aveva cominciato presto e in paese era amico di tutti, tanti ce ne erano stati di ragazzotti tonti da spingere in avanti a suon calcioni e le famiglie peggio. Una gran carriera d’urli, carocchie e rispetto, la sua, che la gente non poteva proprio dimenticare.

*

Ma c’era un ma. Un ma senza criterio.

Ogni anno il professore andava alla festa del suo paese; c’andava festoso, ma incazzato di pece.

Era una storia complicata, cominciata molti anni prima, quando, per il santo patrono ad agosto, il professore aveva messo l’usanza di distribuire poesia, come fosse stata cupeta dolce, agli angoletti stretti del centro storico. E lo aspettava, la gente: – dov’è che sta il professore quest’anno? dove lo ha messo il banchetto questa volta? – lo cercavano per farsi poetare due parole, come se fossero stati i tarocchi.

La poesia invece del futuro; tre versi invece di un ritratto e la strada con le luminarie storte a far da complice, cornice e promemoria. Lui si metteva seduto chino. Stendeva i fogli. Inumidiva la punta del lapis, ché delle parole sue doveva restare una traccia breve nel tempo, e aspettava i clienti. Aspettava e si guardava intorno. Aspettava e cresceva la voglia. Aspettava e s’impennava l’ansia. Aspettava e s’addensava la memoria. Aspettava, puntava e bolliva il desiderio. All’inizio sembrava dovesse andare tutto a meraviglia, ma poi coi primi clienti cominciavano i guai. Ogni anno così. La gente veniva da lui, come da un giocoliere di strada, e lui regalava un verso naturale, come per contagio. Come uno che cammini per la via e si spaventi di un ombra fuggiasca e gridi: oh, così al professore gli bastava una faccia e la poesia arrivava veloce. Era un’onda di paura o stupore, con il vento dietro. A quelli brutti ci faceva due righe di pietà e a quelli belli due di invidia e scongiuri. Ai vecchi una prece baciata e ai giovani un rimprovero in rima. Ai bambini una favola d’orsi color caramello o di fate schiattate e poi resuscitate. Alle femmine una terzina golosa che era come una gran pacca sul sedere. Tutto veniva fuori a sentimento come in un balbettio gentile. Faceva presto e faceva in fretta, il professore, e se la banda suonava dietro l’angolo o il santo vorticava a processione sotto le braccia della confraternita, per lui era meglio. Era tutta ispirazione aggiunta, diceva, era sprone, atmosfera a iosa.

Era la gara ad esser più bravo nel raccontar la festa della gente.

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Ma c’era un ma. Con l’estro e la clientela, al professore gli balzava la pressione al petto, il sangue gli pompava grosso e le dita tremavano sull’arte del foglio. Con la poesia arrivava pure una specie di rimbambimento lunare che gli causava un vibrare argenteo e incontrollato. Quella sua ansia diventava spettacolo senza controllo. Lui continuava a poetare, finche poteva, ma s’incazzava assai, quasi più di un cane alla catena, e in ultimo esplodeva. Ogni anno era la stessa storia: con la notte arrivava la passione ed era atomica. Al culmine della festa, coi botti, e tutto il resto, finiva sempre che il professore si gettava in terra tra le rime sparse. Tutto sussultava e sputava e urlava e si riempiva di polvere e inchiostro, terrorizzando la clientela. Non c’era niente da fare: quando gli montava l’urticaria, gli montava e basta. Il banchetto all’aria, i fogli in cielo, le vecchine (che aspettavano il turno loro per farsi immortalare come la Silvia dal Leopardi) si scansavano urlando, le signore eleganti alzavano i tacchi argentati come avessero visto mandrie di ratti sfuggire ai tombini. Persino i palloncini d’elio lasciavano le mani ai ragazzini, quando il professore s’ammattiva di rabbia e talento e stramazzava sull’asfalto, rantolando come un toro uncinato. Il fazzoletto gli diventava color vino per il sudore e il fango. Il viso beato dell’artista incontrollato si contraeva in uno spasmo cieco e la camicia candita gli diventava una schiumarola di birra, pietre e cicche.

Uno spettacolo davvero colossale.

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Alle volte i turisti stranieri riuscivano a tirar su due foto ricordo da spedire ai parenti, altre volte al ritorno in patria raccontavano del matto agli amici, ma nessuno gli credeva. Oramai non si capiva più se la vera attrazione popolare fosse quella poesia da strada ad offerta libera o la scena cruenta di chi stramazza e schizza. Se ne parlava pure oltre i confini regionali e la stampa diceva che quella confusa isteria era la giusta immagine dei tempi. Di solito la schioppettata in terra durava un bel pezzo, ma la gente non s’annoiava. Si legava a girotondo intorno al poeta professore finché non arrivava il figlio Astolfo, grande e grosso e ripetente da tre anni al magistrale, per portarselo via di peso nello stupore generale. A casa poi la moglie, paziente e analfabeta, se lo curava col brodo tiepido e i pediluvi salati. Il medico di famiglia non si dava pace. Non comprendendo le origini del male, la cura era chimera. Poteva essere la forza bruta delle belle lettere, o le luminarie in grande spreco sui cornicioni delle case basse, o la faccia pelosa di quel figlio deludente o quella della moglie sciatta, o il banchetto dello scrivano nano che s’opponeva alle vette della sua poesia. Poteva essere il muscolo cardiaco o quello cerebrale. Poteva essere la mano o il piede, quello che c’era e quello che non c’era, la musica o il silenzio, l’aria buona o quella malata, poteva essere tutto questo o il mondo, ma il fatto era che il professore pazziava di anno in anno sempre più, senza mai perdere né il vizio né il gioco.

Capitava che la gente pure s’interrogasse, è chiaro.

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Era corsa rapida la voce che ci fosse in paese un matto poeta, maestro di lettere istantanee, che quando era notte di festa gli prendeva la stranezza d’amore e d’arte. E come mai? e come accade? E perché sì e perché no? Ma non tutto si spiega; certe isterie son roba da femmine e come le femmine che di rado si lasciano spiegare, pure la poesia vivace del professore matto restava senza peso.

Una volta, in tarda primavera venne una giornalista al bel paesello strano. Voleva fare il botto con il poeta, come si fa coi santi o i bombaroli. Gli disse dritta in faccia: ne scriva una tutta per me, che io la pubblico domani. Il professore si sedette al banchetto e fece lo sforzo, ma non venne fuori nulla. Si fece triste come una gallina col culo freddo, ma niente uguale. Lui aveva sempre spiegato ai suoi ragazzi a scuola che quando la parola sua se ne andava a festa, era come una arrampicata senza legacci verso l’estasi, che in cima rompa il vaso e tutto l’urlo s’arrovescia in terra, laddove s’apre libero, spampana e allaga. Per questo si ammalava. S’ammalava libero e impazzito. Quando la parola nuda scivola fuori come lava, sempre s’ammala il corpo che la sputa, diceva il professore. Così disse pure alla giornalista rimasta a secco di sonetti e si scusò con largi inchini, strizzando il fazzoletto rosso al collo, come un guinzaglio. Si giustificò spiegandole che lui c’aveva bisogno del rito santo e del vulcano onesto per creare, che di quello si nutriva, mentre invece della stampa non sapeva nulla, salvo scandali e menzogne secche, che l’estro gli ammosciavano assai. Le disse che lui non sapeva dare altre spiegazioni al fenomeno, né quali comandi dare al verso per farlo fiorire.

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La giornalista però era una tosta, tra master e stage era diventata la gigantessa degli scoop e al professore gli fece la lezione.

Peccato, lei, signor mio caro, si perde un’occasione. Portando il caso suo nel mondo, la fama sarebbe già una cura e l’isteria si può far d’oro a saperla raccontare.

Mi dica ciò che prova, cosa sente, si confessi, si sfoghi pure che la telecamera per chi è savio può essere la giusta culla.

Ma la poesia malata d’estasi del professore non trovò ragioni e dondolii. Tentò, tentò più volte l’affondo, ma alla fine il poeta non poetò e nulla comprese di quel suo silenzio. Poi, quando la cronista bella e delusa se ne tornò in redazione, il professore rimase tra i fogli bianchi a meditare. Cercò poesia fino a mezzogiorno. Cercò e cercò, ma il paese gli parve senza più voce e gli venne una gran fame. Stava dal fornaio quando finalmente gli fiorì alla mente la rima che fino a quel momento gli era parsa monca. Quando Donato, con la cuffia bianca in testa, gli chiese se le rosette le voleva vuote dentro come sempre, lui, invece di rispondere prese a declamare.

Il verso atteso eruttò così intenso che le casalinghe grasse si fermarono sulla porta d’ingresso con le buste piene. In breve la bottega si riempì di gente così affamata, che sembrava ferragosto, ma nonostante il gran successo il professore fece giusto in tempo a regalare qualche suono armonico prima di finire in terra come le altre volte.

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Strisciò cieco fino in strada, giusto davanti alla bottega del fornaio. Scalciò poesia con gli occhi rivoltati dentro. Sputò terzine e bava. Ululò alla luna femmina con le reni schiacciate nel pietrisco. Si dondolò così tanto sulla pietra da restare nudo. Fu un peccato davvero che non ci fosse più da quelle parti la bella giornalista a trasformare la bestia in una star. Fu una festa senza scena. Un palco monco. E se era sempre stato difficile dare un senso, da quel giorno, senza luminarie, processioni e banchetti nani, l’arte del professore si fece ancor più occasionale e vaga. Sebbene Donato, il fornaio previdente, fosse corso a chiamare Astolfo, il figlio del poeta (che a quell’ora era ancora a scuola e proprio non s’aspettava spettacoli e rumore), la premura non bastò. Per la sua famiglia, la rima del funambolo allunato divenne tragedia, mentre per il paese restò un generoso mistero, proprio come l’amore, senza ordine e criterio.