Identità salentina

Gente di quì

Antonio Errico

Uno si chiama Antonio De Ferrariis, detto Galateo perchè nato a Galatone tra il 1444 e il ’48, da Pietro, notaio, e da Giovanna D’ Alessandro.
Fu medico, letterato, appassionato di sapere le cose di filosofia e quelle del cielo e quelle della terra, autore di una meraviglia che si intitola Liber de situ Iapygiae.
Diceva: “ Noi non ci vergogniamo delle nostre origini. Siamo greci e ciò è per noi motivo di gloria. Il divino Platone ringraziava gli dei per ogni cosa gli avessero elargita, ma soprattutto per questi tre motivi: averlo fatto nascere uomo e non bestia, maschio e non femmina, greco e non barbaro”.
Poi diceva che il padre aveva studiato le lettere greche e latine, che i suoi avi furono sacerdoti greci, conoscitori profondi di letteratura, sacra scrittura e teologia, “ illustri non per essersi distinti nell’uso delle armi, cioè per violenze, stragi e spoliazioni, ma per buoni costumi e santità di vita”.
Poi confessava di vergognarsi anche di essere nato in Italia, “ sebbene alcuni scrittori abbiano posto la Iapigia fuori dall’Italia”. Se la Grecia è andata in rovina per colpa della sua vetustà e dell’avversa fortuna, l’Italia si sgretola per le sue scelte e le beghe intestine. Se la Grecia è ridotta in schiavitù perché costretta, l’Italia si è fatta schiava per volontà sua.
Più volte la Grecia ha liberato l’Italia dall’asservimento dei barbari; l’Italia ha acconsentito che la Grecia ne diventasse serva. Così diceva.
Infine la previsione dolorosamente serena: “Ma noi espiamo ed espieremo il fio delle nostre azioni scellerate. Infatti le nostre sventure, come vediamo, non sono ancora giunte al culmine”.
Non voleva essere un cattivo auspicio. Solo che ci sono uomini che vedono lontano, molto più lontano degli altri uomini. A volte con rammarico, forse.
Dal suo rifugio salentino, Antonio Galateo vedeva lontano. A volte con rammarico, forse.
L’altro si chiama Giuseppe Desa. Nacque a Copertino il 17 giugno dell’anno 1603, ultimo di sei figli di Felice e Francesca Panara. Racconta Giuseppe Ignazio Montanari che non aveva più di otto anni quando “ standosi in orazione , e fisso col pensiero nelle cose di Dio era ratto quasi estatico fuor de’ sensi, e stavasi così lung’ora cogli occhi sbarrati, le mani levate in cielo, le labbra aperte, e tutto immobile della persona”.
Irascibile. Lento. Svagato. Vagolava senza meta. Inconcludente. Incapace.
Anche il tentativo di fare il calzolaio gli fallì.
Però volava.
“Oh ma’ – diceva – volo, ma’”. Volava.
Più di settanta volte – si narra – fu visto sollevarsi.
Rimase sospeso in aria anche mentre il Tribunale dell’Inquisizione lo interrogava.
Giuseppe Boccaperta: “Illetterato et idiota”. Il Frate Asino, il Santo dei voli. Se ne andò in giro per il mondo con la bocca aperta. Il più grande santo tra i santi, dice Carmelo Bene. Colui che eccede la santità stessa. Sommo lusso della sancta sanctorum: levitare.
L’estasi di fra’ Giuseppe e il congiungimento fra la terra e il cielo. E’ la mediazione tra il transeunte e l’eterno, l’andirivieni fra due realtà lontane. L’estasi è l’esperienza di un altro tempo e di un altro spazio. L’oltrepassamento di un confine fisico e psichico, un’esaltazione della dimensione sensoriale, il superamento della propria umanità e il ritorno ad essa. E’ la trasfigurazione dell’ essere, una distrazione dalla finitudine per un’attrazione verso l’infinito, l’elaborazione della verità in forma di mistero. E’ il pensiero che va oltre se stesso.
Nell’estasi, Giuseppe non è creatura terrestre, non è creatura celeste. Probabilmente è il messaggero degli uomini presso Dio e di Dio presso gli uomini.

Due immagini.

Una dall’explicit de Il fabbricante di armonia, quel punto in cui Antonio Verri fa dire al Galateo che la gente, qui, ha il colore del mare, l’andatura di un’onda, il cuore negli occhi.

Dice: è stupenda questa gente, anche nel dolore, anche quando urla, quando impreca. “ Questa gente ha l’umore di questa terra, cresce con essa, ad essa confida i suoi mali, le sue gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze”.

Qua si impreca alla morte. I paesi parlano con le campane. Il suono spande la sua ombra su distese di fieno. Due vecchi sulla chiesa sono una carezza d’infinito: “ l’infinito si può scovare dappertutto in questo posto, e ogni cosa, ogni persona, ha un suo particolare stupore, dolore”.

Ecco. Qui, in Salento, l’infinito è un’ epifania consueta. La sua idea non viene dall’armonia di paesaggi, da lunghi e aperti e profondi orizzonti, dalla natura che si appalesa in forme, in espressioni del tempo, ma da un sentimento intimo nei confronti della propria vita, dalle luci e dalle ombre del pensiero, dalle leggerezze e dalle angosce che tramano l’esistenza, dall’enigma che vogliamo intravedere nei fatti della Storia che ci appartiene, alla quale apparteniamo, talvolta con orgoglio, talvolta malvolentieri.

L’altra immagine è quella proveniente dall’ iconografia sacra popolare: San Giuseppe che si alza in volo sugli ulivi e su uomini e donne stupefatti. Quel monaco rissoso che vola fra gli alberi, come dice Vittorio Bodini, diventa sintesi e metafora della gente di qui, che ha l’ansia di dislocarsi in un altrove, che cerca lo sconfinamento, si distacca dalla condizione del tempo e dello spazio, affronta il passaggio nei territori del mistero, in una tensione verso il simbolico e l’astrazione.

E’ la levità del pensiero, la sua confusione con il vento; è anche l’artificio di un movimento

estremo e folle di congiungimento con la bellezza, con la rivelazione, con l’ultraterreno.

In queste due immagini, la terra e il cielo si fanno proposizione di un desiderio di polarità e di sdoppiamento, di terrena concretezza e di trasognato stupore.

Di quel desiderio che prova la gente di qui.