Le Stralune di Antonio Errico








Stralune”: il poema delle ricordimenticanze di Antonio Errico


di Maurizio Nocera

«Raccontare la propria dimenticanza […]». Così chiude la sua bella recensione il poeta Antonio Prete sulle pagine del «Corriere del Mezzogiorno» di martedì 17 febbraio 2009. Un evidente ossimoro, una palese contraddizione in termini. Ricordare la propria dimenticanza è come dire ricordare il nulla che non si è vissuto. Eppure proprio su questo ossimoro si basa il lungo nostalgico disperato poema di Antonio Errico, “Stralune” (Lecce, Manni editore 2008) che io ho letto come il canto d’un poeta affranto, la storia/non storia di un «disertore – come scrive lo stesso Errico in quarta di copertina – [che] ritorna nella notte [con] la memoria [che] diventa corpo, diventa voce di madre, di figlia, di amante, di padre, di sé. Sullo sfondo del tempo, la guerra», una guerra, ma che non sappiamo quale e dove.

E un Tempo, o meglio il Tempo che diventa il vero “leit motiv” del poema. Questo eterno indefinibile irrappresentabile inconcepibile interrogativo che domina la diversalità dell’uomo, la sua eterna disperazione, lo iato che nessuno sa sciogliere, quello della vita, quello della morte. Sono pagine, quelle di questo lungo guardarsi dentro e fuori dell’autore, che legano il lettore ad una sorta di continuo smarrimento. Non sai dove cominciare, non sai dove finire. Non conosci la meta verso cui egli ti vuole condurre, se il baratro, la perdizione, o la ricordanza della dimenticanza. Opino per la ricordimenticanza, e Antonio Errico me ne dà motivo quando mette sulle labbra della madre del personaggio, che non dimentichiamolo mai è il disertore, queste languide parole: «Dimentica i tuoi aquiloni, i giochi nei cortili, il tempo della semina, il mosto dentro i tini, i tamburelli nella notte, le barche di carta, il nano di legno che scendeva dalle scale, dimentica quante volte non hai saputo capire, dimentica quante volte non hai saputo ascoltare, dimentica tutti i giorni che hai pensato di fuggire, tutte le notti che hai sognato di tornare, dimentica la luce delle albe di aprile, poi tutto quello che non vorresti mai dimenticare, fai come se dovessi dimenticare la tua carne, come se dimenticassi che hai sangue nelle vene, dimentica tutto il bene che mi hai voluto e ti ho voluto, il male che ti ho fatto non venendoti a cercare» (p. 107).

Si tratta di un sentimento forte quello che il poema trasmette, di una razionale irrazionalità assurda: ricordare ciò che hai dimenticato, dimenticare ciò che non hai vissuto. Ecco perché la lettura di del poema ti prende dentro, ti scava l’anima e con tensione di Titani ti accompagna come un’ombra persistente, come un fantasma che ti guarda da dietro le spalle e di cui non sai se ti devi fidare. Antonio Prete scrive che si tratta del «tema del ritorno» definendolo come il “nòstos” della guerra. Non ha torto il professore di Siena, e tuttavia, alla sua definizione mi viene da aggiungere al tema del “nòstos” quello della disperazione del disertore, di un militare che ritorna o che fugge dalla guerra, ma che guerra poi non sa se tale è stata oppure se tale ancora è. Lo scrive lo stesso Errico (che per tanti versi è il nostro disertore) in tanti, numerosi passaggi ossimorici. Lo scrive perfino nell’esergo che apre il poema con alcuni sofferti versi di Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai».

Potenza dell’ossimoro: il tutto è il niente; il viaggiare è come il restare: mai abbiamo viaggiato perché mai siamo rimasti fermi. E dunque? Dunque, “Stralune” è l’elogio dell’ossimoro, è come un bastimento carico di contraddizioni terminologiche, che tendono il lettore verso lo smarrimento, spesso quello stesso dell’autore che vorrebbe sapere dalla madre, o dal padre, o dalla figlia, o ancora da altri personaggi pure presenti nei testi, prima fra tutti l’eterna ombra, la coscienza che rimuove il vissuto del poeta, alla quale egli continuamente pone domande per sapere qualcosa di più, qualcosa in più. «Fu nella confusione di angoscia e meraviglia – scrive a chiusura del libro – nella negazione di un’inevitabile rinuncia, nello squilibrio tra l’assenza e la presenza, nella contraddizione che si nega e che sovrasta, nell’ambiguità, della contratta ricordanza, nell’impossibilità di fuggire un’altra volta, nelle loro domande senza risposte, che capì chi era quell’ombra. / Fu nella differenza tra quel giorno e quella notte. / Nella coscienza del passaggio dalla bellezza all’abbandono. / Nella solitudine che era l’ultima occasione per sopravvivere un istante ancora in quel paese. / Fu in tutto questo che capì chi era quell’ombra» (p. 150).

Ebbene, ho qui ripreso questi versi del poema, scritti in forma di prosa, perché in essi è facile leggere la potenza dell’ossimoro, il continuo contrasto tra il dire e il non dire, tra il fare e il non fare, tra la vita e la morte, la morte, questa volatile Signora in nero assai presente in questo esteso penare la ricordanza, penare la dimenticanza. Si pensi, ad esempio, e con un’ansia che non lascia libero il respiro, all’ombra (forse del disertore) minacciata dalla pistola del sergente: «Strinse gli occhi forte forte e aspettò lo sparo. / Sapeva che sarebbe arrivato con un dolore che non conosceva […] Stringeva fra le mani l’erba verde aspettando che lo sparo gli squassasse le tempie. / Il sergente taceva. Respirava forte. Tossiva. Lui sentiva la sua sofferenza» (pp. 118-119).

E ancora, si pensi, ad esempio, alle austere e struggenti pagine del viaggio/non viaggio del tempo senza tempo in cui l’autore, questa volta nei panni dell’ombra [che in altra parte del libro «la immagina donna» (p. 65), ma che in altre parti la fa sembrare come l’ombra della morte], attraversa il cimitero del paese affermando: «L’altro pomeriggio ho vagato per ore dentro il cimitero. Ho vagato per ore senza una ragione […] Mi fermavo a leggere i nomi sulle lapidi, a guardare i volti sconosciuti. A calcolare gli anni che erano passati tra una data segnata con la stella e un’altra data segnata con la croce. Molti anni, a volte. Altre volte pochi» (p. 52). Qui Errico coinvolge la religione ebraica e quella cristiana. Ma ciò che più attrae il lettore è questo lungo peregrinare dell’ombra nel cimitero, la sua constatazione dell’effimera eternità, dell’eterna diversalità. Scrive: «Mi sono accorta che molti nomi erano uguali. In questo paese ogni nome è sempre uguale a un altro nome. Vivi e morti tutti con lo stesso nome» (54).

Non è facile rintracciare nella letteratura contemporanea un tale spregiudicato uso dell’ossimoro così come qui, in questo poema, fa Antonio Errico. Sicuramente nulla di tutto ciò è esistito nei tempi antichi e per di più non è facile rintracciare dei testi così belli ma allo stesso tempo così difficili ai nostri tempi. Forse qualcosa è possibile leggere nei testi di Antonio Tabacchi, oppure nella poesia di Caproni appunto. Comunque, se ci dovessero esserci dei testi così strutturati, sicuramente si tratterà di passaggi, di trovate poetiche o narrative, nulla di più. Qui, invece, in queste stralunate “Stralune” di Antonio Errico, noi troviamo l’ossimoro poetante in ogni pagina, in ogni periodo, oserei dire quasi in ogni verso. Potenza della scrittura, potenza della narrazione, e noi sappiamo che Errico, ora, è maestro di tutto ciò. Si diceva potenza dell’ossimoro poetante. Ecco un altro straordinario esempio: «Nessuno saprà mai se sono morto – scrive Errico – perché non saprà mai se fui davvero vivo» (p. 11). E ancora: «Non portava ricordi quell’onda di voce. / Portava torti e ragioni. Condanne e perdoni» (p. 15). E poi: «Io vivo morta qui» (p. 17). E infine: «Dormire, pensare, è indifferente. Fare, non fare, è indifferente. L’inverno o l’estate è indifferente. Vivere, morire, è indifferente» (p. 27).

Potenza dell’ossimoro dunque, che leggiamo anche nell’altro bellissimo esergo di pagina 7, figlio dello stesso autore del libro. Scrive: «Colui che racconta è colui che ha tradito. / Si tenga conto di questo durante il racconto. / Se ne tenga conto quando il racconto è finito».

Non si tratta di una “boutade” e non vorrei sbagliarmi, ma credo di capire cosa Antonio Errico voglia comunicarci: “Attento lettore, nessuno è immune dalla diserzione, nessuno può dichiararsi non traditore”. Sì, è vero, è proprio così, perché un po’ tutti, parafrasando i versi del poema, siamo “falsari di noi stessi. Filo di fumo della nostra stessa vita. Sacchi vuoti. Maschere. Raggiri. Stupida falsità. Riflessi spenti (p. 11).

Nel poema c’è poi tutto un gioco di luoghi: nelle prime pagine del libro, ma anche e ancora qui e là nel testo, si leggono descrizioni di luoghi a noi molto vicini; ad esempio, i dintorni e la stessa città di Gallipoli [la chiesa dei Sàmari, il porto, il ponte. L’autore scrive: «Allora passò per la via dei balsami, per quella del convento, costeggiò il mulino vecchio, la piazza della fiera, poi le sette chiese dalla parte dei bastioni, poi i camminamenti che attorniano il castello» (p. 38)]. Come si fa a non individuare qui luoghi assai cari al poeta? E ancora, e leggendo oltre, c’è il Salento visto in filigrana metaforica, con pure Lecce, splendidamente racchiusa in quella «strada delle beccherie vecchie» (p. 96), che noi sappiamo essere la strada che parte da Porta San Biagio e che si dirige verso la biblioteca provinciale “N. Bernardini”. E poi le giravolte, e altro ancora.

Altra gemma del poema è l’iterazione che l’autore usa abbondantemente, quasi pagina dopo pagina. Ma si tratta di un’iterazione poetante, che diventa sempre verso languido e morbido adagiato sullo scorrere del testo. Ci sono ossimori e iterazioni forti, che fanno sprofondare il lettore quasi in una condizione di sgomento come, ad esempio, «Io vivo morta qui», che si ripete per più e più volte tra le pagine 17-35. Praticamente si può affermare che l’iterazione è presente in ogni pagina delle 150 pagine del libro. Di tanto in tanto, tra l’uso di termini bellissimi, Errico ci infila anche dei neologismi dolci come pasta di mandorla. Si pensi, ad esempio a parole come «tralucere» (p. 11); «lucere di stelle» (p. 17); «lumera che arde» (p. 29). Altrettanto bello l’uso discreto di parole dialettali, come «magàra» e «scursone» (p. 29); «straccazione» (p. 32); «malladrone» (p. 34). E le lune poi sono le mille lune salentine che l’autore de “Stralune” conosce bene e che sono «lune bianche è…] lune annuvolate […] lune nelle storie che ci raccontava la madre di mia madre, di quelle lune vendicative, di quelle lune fatate, di quelle altre che consolano le anime di cavalieri senza pace» (p. 76). Insomma lune stralunate, che noi salentini conosciamo molto bene.

Ma adesso è ora di finire.

Nel romanzo storico, bellissimo, “L’ultima caccia di Federico Re”, Antonio Errico aveva raccontato la storia dentro ad un tempo definito dell’«ultimo giorno, l’ultimo bosco. L’ultima caccia», ovviamente a modo suo, che vuol dire nel modo che solo un poeta sa, del grande imperatore, dello “Stupor Mundi”, del “Puer Apuliae”, che muore nel silenzio di Castelfiorentino, nei pressi di Lucera. Qui, invece, in questo poema, “Stralune”, egli narra il Tempo dentro una Storia, quella di un disertore, o di un’ombra di un militare che può essere chiunque, che può essere benissimo l’autore del poema, ma può benissimo essere anche lo stesso lettore del testo.

La storia di un disertore dunque. Antonio Errico sa che non molto tempo fa ci fu un altro scrittore disertore, per di più poeta come lui, che scrisse di un altro disertore. Si chiamava Antonio Leonardo Verri, e in un suo libro dal titolo “Il naviglio innocente” (Maglie, Erteci edizioni 1990) inserì appunto una storia, quella di un disertore. Ovviamente si tratta di un’altra storia, diversa da quello descritta in questo poema di Antonio Errico, ma ugualmente vuole rimarcare la pena del distacco da certa realtà. Quella del Verri era una realtà geodescrittiva di luoghi e di persone. Questa di Errico è dominio del Tempo nella ricordimenticanza. Il Tempo che non dà tempo o che si prende tempo. Ancora l’ossimoro, ancora l’iterazione.

Scrive Errico: «Con uno sguardo riuscivo a riavvolgere il tempo» e «Tu non sai che cosa è stato questo tempo» (p. 73); «Tu non sai come ho passato i giorni» (p. 74), più volte iterato; «Dalla finestra guardo com’è il tempo» (p. 75); «È passato tanto tempo. Davvero. Tanto tempo» (p. 80); «Tu non sai come ho passato i giorni» (p. 80); «Ho sentito che il tuo tempo era finito» e «L’impazienza del tempo» (p. 84); «Quando fu passato esattamente un anno dal giorno che eri andato via, mi alzai alle sei del mattino e andai a guardare il mare. Un anno senza te non mi sembrava vero. Un anno senza te con un dolore che non potevo sciogliere. Un anno senza te. E mi chiedevo quanti ne sarebbero passati senza te, quanti anni avrei vissuto senza te, per ricordarti» (pp. 86-87); «Restavo ore e ore dietro le imposte a guardare i rivoli ingrossarsi» e «Non è più tempo, adesso, e poi non mi interessa» (p. 89); «Si guardò intorno ed era tutto uguale. Come se il tempo non avesse avuto movimento» e «Se davvero gli fece un cenno forse fu solo per fargli capire che era il giusto tempo» (p. 96); «Ogni tempo si conclude, a un certo punto» (p. 100).

E per questo che con l’autore di “Stralune” penso anch’io «che il tempo dell’ombra era finito» (p. 117), come ora è finito il mio tempo di lettura.