Elisabetta Liguori, La premura dell'acqua


Sono gli anni della neurologia, dell’assistenza domiciliare, dei sensi di colpa: è bene farsene una ragione e ragionare per obiettivi.

Adesso ci si ammala, ma si sopravvive e non si può far altro che vivere sulla spalle di chi si ama.

La marca non contava. L’importante era averla. Il primo pensiero dei vecchi genitori di Marcello era sempre far sì che lo stanzino delle scope fosse adeguatamente ingombro di confezioni da sei di bottiglie di plastica. Solo acqua naturale, poiché, diceva papà Ubaldo, c’era qualcosa d’innaturale in quella frizzante.
Il male si nasconde nell’artificio, diceva.
Da tempo ormai la fatica della gestione della salute dei suoi genitori, ormai sempre più malandati, si palesava al mondo con la punta d’iceberg dell’approvvigionamento idrico. Marcello non sapeva perché stavano così male, quale veleno li aveva ridotti così, né se ci fossero davvero dei rimedi per quella deriva, ma sapeva che loro avevano bisogno di acqua, molta acqua. Come tutti i vecchi, del resto, ma loro un po’ di più. O almeno così gli pareva. Le malattie neurologiche si diagnosticano al supermarket, pensava dunque Marcello, ogni volta che ne sceglieva di gran fretta uno a caso e vi parcheggiava davanti.
Una sera come tante papà Ubaldo l’aveva chiamato al cellulare e con quella sua voce polverosa, gli aveva detto “siamo prossimi alla fine, pensaci tu, figlio mio”. Niente di nuovo. Un tempo papà Ubaldo era stato uno di quegli eroi familiari senza sosta e senza macchia. Sempre fuori casa: un appuntamento, un impegno improrogabile, una scadenza rigida altrove.
Era stato uno di quei padri che ci pensava lui a tutto e per anni si era sostituito all’unico figlio, oltre che alla moglie, sollevandoli da ogni disagio, da ogni incombenza. Ad un certo punto però s’era fermato: come un’auto di grossa cilindrata aveva perso un paio di giri su un rettilineo qualunque e il motore s’era spento. Una manciata di chissà quale sabbia s’era infilata negli ingranaggi e stop. La brusca frenata aveva sorpreso tutti, soprattutto lo stesso Ubaldo, che aveva spalancato i suoi occhi neri senza pupille e si era guardato prima le gambe e poi le braccia. Gli arti gli s’erano spenti una mattina al risveglio, come ci fosse stato un tasto on/off sotto il pigiama. Ricordava solo di aver avuto un dolore persistente al tallone qualche mese prima, ma null’altro che lasciasse presagire una disfatta simile.
I medici avevano stilato referti a dozzine. Quelli di casa ne avevano parlato inutilmente con tutti, finanche col fruttivendolo e il carrozziere di fiducia, per conforto. Poi avevano cominciato a tacere. Da allora nulla era più stato come prima e Marcello d’improvviso s’era ritrovato nella mani un padre immobile, chiuso in una teca, come una bambola di pezza.
Nel corso dei quindici anni che erano seguiti, molto gradualmente dal silenzio si era arrivati alla grande sete. Un’arsura terrifica. Capire cosa fosse successo ai neuroni di suo padre non era stato possibile per nessuno, così s’era pensato di annegarli. I diversi specialisti sembravano contrade durante il Palio di Siena. Ciascuno con la sua bandiera, la sua specializzazione, il suo orticello, i colori del proprio staff di fiducia.
Ma sull’acqua era d’accordo tutti. Invece della chimica, l’acqua. L’acqua che depura, che lava, che cancella, che bagna la sabbia e costruisce castelli. Ed Era Marcello l’uomo ufficialmente incaricato dell’approvvigionamento idrico.
È proprio così che accade, rifletteva Marcello, in quella sera umida di scirocco, smontando dall’auto e mettendo l’antifurto con un click: una generazione preme sull’altra e l’asseta.
Sono gli anni della neurologia, dell’assistenza domiciliare, dei sensi di colpa: è bene farsene una ragione e ragionare per obiettivi. S’allunga la vita, s’alza il rischio e aumenta la pressione. Adesso ci si ammala, ma si sopravvive e non si può far altro che vivere sulla spalle di chi si ama. Si soffre tutti da cani e questa sofferenza ha spesso a che fare con l’acqua.
Marcello aveva una predilezione per le bottiglie colorate.
La plastica verde, oppure quella azzurra.
Le bottigliette con lo spruzzatore blu da mezzo litro erano in assoluto le sue preferite, ma anche le più costose. Quando si sedeva sul bordo del letto, inclinando il busto di 30° per infilarla tra le labbra screpolate di suo padre, lui ciucciava più facile con quelle. Con più gusto. Per tutto il resto c’era sua madre e un infermiere calvo, ma dell’acqua si occupava Marcello. Solo lui.
Suo padre era immobile e concentrato: gonfiava e sgonfiava le gote. Si fermava, respirava, storceva le narici, tremava col mento, poi ricominciava coi sorsi. Il primo mezzo litro a temperatura ambiente in circa otto minuti. Quando poi si fermava, con il petto ondeggiante, sorrideva grato e bagnato, mentre i peli della sua barba brillavano colpiti dalla luce della lampada sul comodino. Marcello si concentrava su quei gesti. Un piccolo piacere comune, in un pantano di insoddisfazioni, impossibilità e domande. Quei sorsi chiedevano cura dinamica. Faticosamente ripetitiva, ma appagante. Marcello era scrupoloso: due volte al mese visitava un diverso supermercato. Ne confrontava le offerte e la distanza dal centro abitato o dal suo ufficio di commercialista. Il reparto acque minerali era sempre ordinariamente sano e l’aggirarsi tra gli scaffali con aria vaga lo faceva sentire un uomo normale.
Solo dopo aver dissetato il padre, la madre, la badante rumena e l’infermiere calvo, e dopo averli tranquillizzati circa la loro futura sopravvivenza, Marcello si occupava di non disperdere nell’ambiente le mille bottiglie colorate. Raccoglieva la plastica accartocciata e cercava il cassonetto giusto tra i gatti del vicinato. Lui era a capo di un processo. Era quello l’articolarsi del suo debito filiale ed era una grande responsabilità.

Con il portabagagli ingombro, anche quella sera Marcello parcheggiò sotto il civico. Provava sempre un piacere enorme nel trascinare quelle confezioni cigolanti su, fino al terzo piano a piedi. Almeno quattro confezioni da sei. Le impilava nell’androne d’ingresso, ansimando nella penombra, dopo aver aperto con il suo mazzo di chiavi. Sempre quello fin dai suoi sedici anni, con una pallina di cuoio logoro come ciondolo. Nel vecchio condominio non c’era l’ascensore, tutto era fermo. Della liturgia neurologica condominiale, lui era l’officiante ascetico, l’unico, seppur sempre più stanco. Poi in casa, anche quella sera, lo stesso olezzo caldo di sempre.
- Sono qui. - gridò, spostando come sempre le confezioni, uno dopo altra, dall’ingresso allo stanzino delle scope.
- Oh, caro. – rispose il solito sussurro dal fondo. La voce di sua madre arrivava sempre da lontano, anche se la casa era di pochi metri quadrati. Dopo la voce arrivava lei, sulle pattine. Da piccolo Marcello le nascondeva e sua madre era costretta a girare in tondo giornate intere per ritrovarle, sospirando paroline disperatamente velenose con quella sua vocina lontana. Marcello le rubava e poi ci pattinava leggero e, se era tramontana secca, riusciva a farsi tutto il lungo corridoio su un solo piede con un unico slancio calibrato. Erano avanzi di mussola cuciti grossolanamente tra loro in due rettangoli e stavano sempre tra i piedi di tutti. Quella sera trovò papà Ubaldo sdraiato sul letto come sempre. Parlava da solo e i suoi discorsi erano avanzi di discorsi cominciati molto prima contro chissà chi. Quella sera la Palestina brontolava dal televisore tenuto a volume basso sul comò in mogano, come da una pentola a pressione.
- È un fatto serio, Madonna mia – diceva – lo vedi anche tu quanto è importante, Marcello?
- Cosa è questa storia del muro?
- E’ un approfondimento del tiggì.
- Un approfondimento di cosa?
- Dell’acqua. Mi pare di avere capito che è per colpa dell’acqua. Da quando i due territori in guerra sono stati separati da questa muraglia, c’è chi vive e c’è chi muore. Chi con l’acqua chi senza. L’hanno fatto apposta. Mica per tenere a bada le cose, ma per rubare l’acqua.

Il collo del padre era piegato a destra in modo innaturale, per meglio cogliere il sonoro, mentre la testa restava tatuata sul cuscino con un alone sfumato tutto attorno. A sedergli accanto, quella sera, la forma del padre gli parve più imprecisa del solito, bidimensionale, e davanti al materassino a pompa, cortesemente fornito dall’Ausl, dopo una decennale trafila burocratica di visti, pareri e controlli, si sentì più a disagio del solito. Da seduto, spostò il peso in avanti verso il padre già sdraiato, con la bottiglia in mano, e la gomma piuma sotto di lui sbuffò in strani bozzi enormi.
- Ma cosa cavolo c’è qui dentro al materasso? Acqua?
- Figurati. Sarà aria. Solo aria, figlio mio. Fosse acqua, invece è solo aria.
Marcello inspirò profondamente, puntando il naso verso il soffitto, sopra la nuvola densa che gli sembrava stagnasse da anni intorno alla sagoma paterna affossata in orizzontale dentro se stessa. La tivù era giallo ocra. C’erano quintali di polvere tra le macerie e una voce che parlava di un mondo diviso in due: i ricchi e i poveri. Nel mezzo il muro dell’acqua: una barriera che separava gli arabi dagli ebrei, razionando le riserve idriche in maniera illogica. Una specie di furto a cavallo delle montagne della Cisgiordania. Una liquida forma di apartheid e di trasformazione del territorio. Per quanto ipnotico, quel ronzio catodico era troppo complicato per Marcello. Distolse l’attenzione storcendo il mento e svitando il tappo di una bottiglia nuova. In quei momenti lui preferiva concentrarsi solo sulla bottiglia colorata, sulla grafica dell’etichetta, sulle vene blu della sua mano rigida, sul suo bisogno di essere figlio, di esserlo in fretta e bene, sul suo mal di schiena, ed, eventualmente, sui suoi 43 anni che fuggivano via, al ritmo forsennato dei sorsi rumorosi di suo padre.
- Ma chi ce l’ha quella potabile?
- I ricchi di Israele, figlio mio! Quelli che c’hanno il potere, le falde acquifere, e così controllano la vita degli altri. Non gli fanno costruire i pozzi, gli assetano. I bastardi. E gli fanno morire pure le mucche. Si sono dimenticati di come è difficile stare al mondo. Ecco cosa. Si sono dimenticati tutto. - Io non ci ho mai capito nulla della striscia di Gaza.
- Lo fanno apposta a confondere le cose, figlio mio. Lo fanno apposta.
- Con tutto quello che ho per la testa, che vuoi...Tu invece.
- Mi resta solo il telegiornale.
- No, fai bene, fai bene. Davvero, fai bene, ti tieni lucido. Ti tieni vivo.
- L’hai portata?
- Eccola, sì. Una bottiglia qui. Le altre nello stanzino.
- Povera gente, però. Non c’è nulla di più straziante dell’acqua, se ci pensi.
- No. Nulla. Storcendo la bocca, Ubaldo prese a ciucciare, diluendo all’acqua un sorriso di beatitudine. Aveva due ragni al posto delle mani: le dita facevano lente arrampicate sulla coperta, mentre un grosso rivolo gli scendeva dal mento fin dentro la giacca da camera, serpeggiando tra le pieghe di pelle irsuta come il Giordano tra siepi e foglie gialle. Ma per fortuna, anche quella sera Marcello era concentrato a sufficienza su quel piccolo universo umido e si affrettò a cercare un tovagliolo.

Racconto di Elisabetta Liguori