Vittorino Curci, La ferita e l'obbedienza



Nuova uscita per la collana di poesia Voli de 'I libri di Icaro'



Eravamo partiti con l'idea di costruire, con la collana di poesia Voli
un luogo di sintesi tra scrittura poetica e riflessione sul fare poesia.
Una scommassa difficile.
Non sempre il poeta ha la capacità di decodificare il processo ispirativo.
Non sempre c'è maturità riflessiva o voglia di muovere le carte
e trovarci dentro i nomi delle cose.
Con questo sesto libro in collana, La ferita e l'obbedienza diVittorino Curci,
troviamo compimento alla nostra aspettativa.
Un testo ricco di rimandi citativi, contenutistici e linguistici
dove l'autore incontra i poeti e legge, rilegge, commenta, studia la sua scrittura, la relaziona con le suggestioni, le certezze, le inquietudini e gli interrogativi
che la "poesia" presenta nel suo divenire.
L'opera si compone di due parti 'Doppiofondo'
e 'Breviario di ontologia per oziosi e bastardi del XXI secolo'.
(M.M.)
Figliolanze
Vittorino Curci

“Non so se questo sia un libro facile o difficile. D’altronde capire la poesia è abbandonarsi alle sue vibrazioni”, scriveva Piero Bigongiari nell’avvertenza posta alla fine del suo ultimo libro (“Nel delta del poema”, Mondadori, 1989).
Io penso che le vibrazioni della poesia siano maggiormente percepibili leggendo ad alta voce. Se l’occhio vuole e si prende la sua parte quando si legge un testo, nel suono c’è qualcosa di più profondo: l’irriducibile verità delle origini.
Nelle “Confessioni” Sant’Agostino va a trovare Sant’Ambrogio e descrive la scena con queste parole:
“Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava in concetto mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchesia, lo vedemmo leggere tacito e mai diversamente”.
Forse questa è la prima volta che in un’opera letteraria viene descritto un uomo che legge con gli occhi: in lui le parole si sono staccate dal suono e hanno preso la via silenziosa dei pensieri. È un passaggio importante dal punto di vista antropologico, e per tutto quello che ne consegue, ma è altrettanto importante capire che se ancora oggi noi vogliamo veramente comprendere una poesia dobbiamo recitarla ad alta voce. Perché essa appartiene anche al corpo umano.
In ogni istante della nostra vita c’è insieme qualcosa di effimero, che si spegne irrimediabilmente sotto i nostri occhi, e qualcosa di eterno, che non riusciamo a spiegarci. Noi cominciamo ad apprezzare la bellezza di un paesaggio nel momento in cui siamo consapevoli della nostra estraneità. Mi piace pensare che anche la mia poesia possa rinascere nella voce e nel cuore di un lettore sconosciuto. Se non ritenessi possibile questo miracolo, che senso avrebbe fare di questa forma di arte una ragione di vita?
“In questa nostra epoca […] in questo nostro tempo così essenzialmente drammatico sono venute meno, senza eccezioni, le Botti di Ferro”, scriveva, più di quarant’anni fa, Edoardo Cacciatore. Scivolando con tristezza sul piano inclinato di questa verità mi aggrappo ad alcune piccole deduzioni:
1. L’uomo fa troppa polvere.
2. Per un bevitore incallito il cavatappi è più importante di qualsiasi idea.
3. Chi scrive poesia non è uno che già conosce, sa tutto e ha voglia di raccontare. Per quanto ne so io, è uno che si avvicina, saggia il terreno, esplora con lo sguardo, è convinto di non sapere niente e si sforza, spera di conoscere.
4. Il segmento che congiunge l’esperienza privata della poesia a quella pubblica (istituzionalizzata) della stessa è un ponte che non posso attraversare.
Tutto questo nei miei versi si traduce in una accentuata tendenza alla quiete. Ciò che rimane sulla carta è il ricordo di tante piccole battaglie che si sono spente sotto i miei occhi. Più che una forma o una vaga idea, io ho nella testa un suono. È difficile spiegare certe cose, ma penso al tono confidente e rilassato della mia voce, all’accento con cui parlo, ai paesaggi che mi hanno formato. Non solo. In quel suono vi è pure una verità che inseguo dal primo istante che sono venuto al mondo. Assoluta e compatta, la sola verità che mi spiega e che io, con un po’ di fortuna, ma senza pretese, potrei spiegare agli altri. Tutta la speranza, per me, si riduce a questo. Forse, anche qui, alla fine, è soltanto una questione di rifiuti (insomma, gli stessi problemi che abbiamo con l’ambiente). Questo lo getto? Sì. Quest’altro magari lo tengo un altro po’, lo getto domani. L’anno prossimo. Tra cent’anni. Alla fine cosa rimane? La poesia.