Il passato del Salento


Il senso della relazione che il Salento
consuma con il suo passato forse è, ad un tempo,
quello di un legame viscerale e di un istinto di rimozione, di rifiuto.
Non è una contraddizione.
E’ la dimensione di questa passione.

di Antonio Errico

A volte così prossimo, a volte così remoto. A volte così chiaro, nitido. A volte nebuloso. A volte accerchiante, incombente, a volte sospeso, leggero.
Il passato di una terra è come quello di un uomo.
Ha forme, sostanze, linguaggi, orizzonti, opacità, trasparenze, concretezze, astrazioni, echi, richiami, sensi affioranti o profondi, racconti e silenzi. Metafore. Simboli.
A volte è un passato buio, a volte luminoso, oppure è un chiaroscuro. A volte è un passato pieno, a volte invece è vuoto (o almeno così sembra), a volte concentrato, a volte dilatato, slargato all’infinito. Ma come che sia è un significato radicale, un passaggio obbligato, un varco che si attraversa in continuazione, un ponte che congiunge le due sponde dell’essere stato in un modo e dell’essere in un altro, forse differente, forse somigliante. Certo non uguale.
Il passato è la condizione con cui comunque fa il conto ogni uomo, ogni luogo.
Consciamente o inconsciamente, con un progetto o per occasione, con inquietudine o con serenità. Non esiste identità senza passato. Oppure, se esiste, è un’identità lacerata: c’è stato un punto in cui si è verificato uno strappo, si è aperta una frattura, è maturato un rifiuto, un abbandono, una diserzione, una fuga. Un’identità senza passato è una negazione del tempo che è appartenuto ad un uomo o a una terra. Un’ identità che si pone in relazione dinamica con il passato, sviluppa una capacità di decifrazione e interpretazione dei segni del presente che spesso costituiscono prefigurazioni di futuro e quindi consentono sia di essere ad agio nel tempo che si vive , sia di essere pronto ad accogliere con consapevolezza il tempo a venire.

Il passato del Salento è composito, complesso, connotato da una fisionomia meticcia, da elementi ibridi, da una rete di interferenze che agiscono talvolta in funzione propulsiva, tal’altra in maniera negativa, da una stratificazione di incognite e di storie in qualche caso ancora non concluse. Dalle contrade del Salento è passata gente d’ogni razza; ha lasciato tombe, parole, misteri, mestieri, piante, riti, poesia, cattedrali, dolmen, menhir, vizi che ormai si confondono con le virtù.
Come ogni passato non è mai incoerente. Ogni fatto ha le sue cause ed ogni causa ha le sue ragioni: comprensibili o incomprensibili. Poi il fatto produce un effetto che può essere accettato o rifiutato, condiviso o contrastato. Ma non è mai incoerente.
Venne Ernesto De Martino, in Salento, e disse di una terra del rimorso , di “una terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito”. Era la fine degli anni Cinquanta e De Martino pensava che le coscienze fossero percosse “dal cattivo passato individuale e collettivo” ma al tempo stesso intravedeva nella vigile memoria del passato un soccorso – forse l’unico soccorso possibile – alla vita.
Ma la coscienza del passato talvolta è tramata da una lacerazione profonda: come una crepa che attraversa il tempo e lascia intravedere il magma che scorre nelle profondità. Lo ha detto Vittorio Bodini che al suo paese del Sud ogni attimo del passato somiglia a quei terribili polsi di morti che ogni volta rispuntano dalle zolle.

Allora il senso della relazione che il Salento consuma con il suo passato forse è, ad un tempo, quello di un legame viscerale e di un istinto di rimozione, di rifiuto. Non è una contraddizione. E’ la dimensione di questa passione. Ed è proprio questa dimensione che mantiene costantemente vivo il passato, oppure lo rinnova, continuamente, che provoca o pretende l’incontro con le sue forme, i suoi simboli, le sue decifrate o indecifrate epifanie.
In ogni espressione di stagione nuova, nella elaborazione di un nuovo pensiero, nelle mutazioni antropologiche che vive, nelle transizioni delle sue culture, nella progettazione del futuro, il Salento si ritrova a confrontarsi con quello che è stato, con la sua storia e la sua tradizione, con i suoi rituali e la sua letteratura, con la genialità e la depressione, con le accademie di monaci sapientissimi e il morso meschino della taranta, con l’incantesimo delle chiese bizantine e la fatica che la terra ha preteso ma anche con l’abbandono che poi la stessa terra ha subito.
Con tutto. Consapevolmente o inconsapevolmente.
Comunque con quella passione. Quindi con l’esclusione assoluta di qualsiasi indifferenza.
In Salento il passato non è mai indifferente. Può essere buono o cattivo passato, può provocare una memoria felice o dolorosa, può essere una ferita mai guarita oppure il segno quasi invisibile di una scalfittura. Ma non è mai indifferente.
Alla fine del secolo scorso il respiro del passato diventa più forte, potente. Quanto più si allontana e quanto più si fanno prossime le nuove configurazioni del tempo, tanto più si avverte il pericolo dell’estraneità a se stessi e alla propria radice, ad un sentimento di appartenenza.
A quel punto si verifica il fenomeno di riappropiazione del passato attraverso le espressioni dell’arte. L’arte è l’unica condizione che consente di riabitare la casa del padre, di riavvolgere fili dipanati, di cui spesso si è persa l’origine e la natura. Un uomo ha il ricordo e la rete di ricordi che costituiscono la sua memoria. Per un uomo il passato è una dimensione esclusivamente interiore, a volte consegnata al silenzio, sprofondata in quel pozzo dell’esistenza che custodisce i segreti più intimi, essenziali. Non è importante – forse è irrilevante – che il passato di un uomo si manifesti, si metta in relazione con il presente che appartiene al sè e con il passato che appartiene all’altro. Per una terra, invece, il passato esiste in quanto e fin quando ha possibilità di ripresentarsi, di riproporsi attraverso sistemi di simboli o proiezioni di metafore.

L’arte si realizza per sistemi di simboli e proiezioni di metafore. Così per tutto il Novecento, l’arte del Salento ha scavato alla ricerca del proprio passato e ha costruito forme di rappresentazione di esso. Prima, più o meno fino a tutti gli anni Cinquanta, esclusivamente attraverso la letteratura e in una qualche misura anche attraverso l’arte figurativa. Dopo, per tutta la seconda metà del Novecento, con una convergenza sapiente di forme espressive molteplici e diverse nei loro metodi e nei loro esiti, anche se identici erano i presupposti, i motivi, i moventi, le finalità, gli obiettivi. Intorno alla letteratura, che è rimasta il riferimento insostituibile, si è sviluppato un movimento creativo che ha generato un fenomeno di costruzione del passato. Quel passato del Salento a cui noi facciamo riferimento, che proponiamo come simbolo, paradigma, modello, è una costruzione realizzata dall’arte.
Tutte le cose che l’arte realizza sono il risultato di una combinazione di vero e di falso, di realtà e di finzione, di storia e invenzione. Anche le immagini del passato vulgate e frequenti appartengono, quindi, a questa natura. Il passato del Salento che si deposita o si spande nel nostro immaginario individuale e collettivo è una figurazione che solo in minima parte risponde a caratteri di realtà. Per molti elementi e per molte espressioni si presenta sotto forme fantastiche, con quelle connotazioni del meraviglioso che sono proprie dell’immaginazione, con quell’insistenza su alcune formule che spesso ha dato origine ad un clichè che come ogni clichè è falso, o comunque storicamente inautentico, quindi semanticamente inattendibile. Così noi facciamo esperienza di un incontro con un passato un po’ vero e un po’ falso, qualche volta storicamente inautentico, quindi semanticamente inattendibile,che in quanto tale trasmette segnali veri, falsi, inattendibili, che non hanno un carattere che interagisce e si esauriscono nel tempo e nello spazio del motivo o del pretesto che li ha generati. Ma senza un’arte il Salento non avrebbe avuto immagini del passato, forme con cui confrontare il proprio presente; non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di assicurare al passato una sorta di infinita esistenza.
L’assedio di Otranto nell’anno 1480, per esempio, sarebbe rimasto probabilmente un fatto di storia minore confinato nelle pagine di ricerca locale se L’ora di tutti di Maria Corti non avesse trasformato in metafora il nome di quel luogo. Il contributo che il romanzo ha dato all’immagine del passato del Salento ha una valenza culturale straordinaria. Ma quel romanzo ha realizzato un’operazione di trasmutazione della storia in mito. Il tempo narrativo ha annullato il tempo cronologico. Ha costruito una realtà simbolica. Ha trasformato una vicenda storica in un artificio dell’immaginazione. Ecco, dunque, il passato un po’ vero e un po’ falso, comunque semanticamente inattendibile. Però è questo passato che ha determinato l’immaginario diffuso e trasversale. E’ questo il tempo che passa e ripassa sul volto del Salento apparendo un po’ come un ombreggiamento che confonde e un po’ come uno splendore misterioso e lontano.