Il Capitano Black nella piccola patria di Cavallino



Magro, bislungo quantunque non alto, ha testa piccola,
folta di capelli nerissimi, viso minuto,
occhi scuri scuri, inquieti,
dai quali si sprigionano sguardi espressivi d'inquietudine,
di bontà e di malizia, voce grossa, gutturale, memoria prodigiosa.


di Mauro Marino

M'è capitato tante volte di passeggiare per Cavallino, di attraversarla, di percepirne i cambiamenti, di viverli direttamente come spettatore e come artefice.di cose di spettacolo e di cultura. Una delle prime volte negli anni settanta per un concerto di Giovanna Marini, se non ricordo male con il Canzoniere Grecanico Salentino. Un altra volta per “Ep art”, una significativa collettiva di artisti salentini, ospitata in sterminate sale bianche, nel grande palazzo del convento dei Domenicani. Era prima del restauro che ha 'regalato' una meravigliosa sede all'Università di Lecce che li abita con l'Isufi. Un'altra volta, da attore, nella scuola media per una replica di “Nuvole” ai piedi di una statua del Capitano Black. L'ultima visita, domenica scorsa, per gli itinerari de I Luoghi d'Allerta. Cavallino è come una “piccola patria”, per quanto appare densa di spunti, di sollecitazioni, di interessi. Accuratamente cresciuta e valorizzata da una determinazione politica che ha pochi eguali nella provincia dei “100” comuni. Il parco archeologico diffuso con le tracce della civiltà messapica, il Convento dei Domenicani, la grande piazza con il palazzo dei Castromediano. Sigismondo, qui nacque il 20 gennaio 1811 e qui dimorò sino alla matura età di 37 anni. Un eroe del risorgimento. Un eroe italiano. Mazziniano della Giovine Italia, aderì poi alla 'soluzione' della Monarchia costituzionale: una patria italiana unitaria con a capo il re sabaudo. Da ragazzo, quando il museo provinciale di Lecce era fatto di poche stanze, ospitate nel cortile dei Celestini, andavo a contemplare le cose che gli erano appartenute. Gli occhialini, le decorazioni, le catene toccategli nella lunga prigionia nelle carceri borboniche e una giacca. Rossa, la ricordo, garibaldina. Ci andavo per capire, per sentire un contatto con la sua avventura e con la Storia. Il 30 ottobre 1848, Sigismondo Castromediano fu arrestato insieme ai compagni del Circolo Patriottico Salentino, con l’accusa di essere uno dei principali responsabili della sommossa antiborbonica scoppiata a Lecce il 29 giugno del ’48. Il 2 dicembre dell’anno successivo fu condannato, insieme ad altri amici, come il Verri e lo Stampacchia, a 30 anni di carcere. Ma Sigismondo non tradì mai il credo politico mantenendo alta la sua dignità morale, soffrendo pene, privazioni e torture nelle galere borboniche. Il 14 gennaio 1859, mentre era nel porto di Cadice in Spagna in attesa di essere esiliato nelle lontane Americhe, riuscì, insieme con altri prigionieri politici, a sfuggire ai controlli e ad imbarcarsi su di una nave per l’Irlanda. Dopo un lungo viaggio, i fuggitivi giunsero a Torino dove furono accolti e aiutati da Vittorio Emanuele II e da Camillo Benso di Cavour. Due anni più tardi, le speranze politiche del patriota Castromediano divennero realtà. L’Italia unita in un unico Stato organizzato in forma di monarchia costituzionale sotto Casa Savoia! Il nostro divenne deputato nel 1861, nel primo parlamento dell'Italia unita, eletto nel collegio di Campi Salentina. Alla fine della legislatura tornò a Cavallino, dedicandosi alla politica del territorio, all'archeologia, alla scrittura. Morì il 26 agosto 1895. E Sigismondo letterato ebbe modo di conoscere, di presentare e recensire Giuseppe De Dominicis, altro 'illustre' cittadino dell'antica città messapica. Così ne descrive l'abitazione: “ Il letto stravolto, la cassa aperta, tre sedie. Una sciancata, la seconda sfondata, la terza manca di mezza spalliera, la più accettabile è la quarta presso lo scrittorio, pur esso impiantato a sghimbescio. E v'è un cappotto arrotolato in un angolo, abiti e berretti alla rinfusa, un oriolo da sacca pendente da fianco al letto. E poi libri spaginati, carte sgualcite, righette, lime, coltelluzzi, bulini, succhielli, stecche di basso, scalpelli... Non vi mancano colori a polvere o stemprati, nè pennelli d'ogni grossezza, e matite e boccette d'olio di lino ed altre vernici. Di qua bozze di caricature, di là pietre da litografare, e teste e figure modellate in creta, e pezzi di legni forti con iniziate incisioni, articoli di giornali incominciati e ben presto dimenticati, un diavoletto insomma da spaventare, poiché l'autore di tanto disordine se ne impipa e senza badare a chi lo avvicina prosegue a disegnare, a dipingere, a intagliare, a litografare e a schiccherare cronache saporite che i giornali si litigano” Io di questi, soprattutto, vi voglio raccontare. Dell'autore de i “Canti de l'autra vita”, l'inventore di “Pietru Lau”. Sapete, di lui m'ero fatto un'idea strana, con il tempo le informazioni scolorano e vanno rinnovate. Lo immaginavo vecchio. Così lo incontri, a Cavallino, se ne contempli il busto posto nei pressi della casa natale. Ma non è così! Egli è stato soltanto giovane! E scopri scopri “contemporaneo” per indole. Artista a tutto tondo. A tutta vita. Poeta del quotidiano, tolto al mondo, a soli 35 anni, da una improvvisa crisi cardiaca. Nacque l' 11 settembre 1869 e morì il 15 maggio 1905. Aveva la sua lingua Peppino, lu Capitanu Tracca, il Capitano Black, lo affascinavano i suoni di quella “volgare”, il dialetto parlato dalla gente. Che l'Italia ancora era acerba e il sud antico, non sapeva l'italiano e la poesia si faceva cantando “scrace e gersumìni”. Un immaginario tutto legato alla civiltà contadina, alla miseria popolana, al paesaggio piatto e assetato del Salento. Agli umori della povera gente, all'ironia al sarcasmo che alleggerivano la vita. Racconta Ennio Bonea in un suo saggio su De Dominicis pubblicato nel 1985, su Apulia, periodico di economia e cultura della Banca Popolare Pugliese: “Nell'immediato dopoguerra a Lecce era facile trovare degli artigiani e qualche popolano di cultura medio-bassa, di mezza età, che citavano versi dialettali di Giuseppe De Dominicis imparati a memoria , senza lettura, per trasmissione orale, dai vecchi ai giovani, da amico ad amico, specie per un riferimento a stati fisici contingenti, ad esempio per denunziare la fame: 'Na ndore te purpette se sentia // ca veramente a nterra te menaa!...'. Voglio dire che, una quarantina d'anni fa, quando ancora a Lecce era viva la 'Cultura pedonale', quella della città percorsa e percorribile a piedi o in carrozzella, perché mancavano le automobili e gli spazi urbani e suburbani erano a misura d'uomo e gli accadimenti si trasmettevano nell'aria da un punto estremo all'altro (...); quando la 'Cultura dell'arco' nell'edificazione di abitazioni civili non aveva ceduto ancora alla 'Cultura dell'architrave' che col cemento armato e le assordanti macchine tagliatufo, avrebbe, a metà degli anni Cinquanta, allargato la superficie urbana fino a toccare i paesi limitrofi (...). Pietru Lau e Capitanu Bracca (pseudonimo dialettizzato di Capitano Black) erano nomi correnti come (...) quelli di personaggi viventi del folclore cittadino, a tutti noti (...). La cultura popolare aveva inconsciamente confuso la figura poetica di Pietru Lau col poeta creatore, passato anch'egli alla mitologia popolaresca come patrimonio indigeno”. Ecco il poeta, il cantore. Forse l'unico esempio di poeta popolare della tradizione letteraria salentina. Colui che accompagna la poesia dall'oralità alla scrittura nel valico del secolo, per consegnarla poi nelle mani dei sensibili, dei dotti... Essere “basso”, essere capace di penetrare nel mondo minuscolo dell'umanità incolta, in quell'autenticità che non aveva voce. Li lo sguardo dell'uomo col cappello nero si soffermava, per farne un paradiso d'altra vita. Per portare il sorriso dove sorridere era difficile. Oggi il Capitano Black anima la ricerca di molti: Fabio Sabetta, attore e musicista leccese legge al pubblico “Li martiri d'Otranto”. Carla Guido recentemente ha portato in scena “Li canti de l'autra vita” con Nello Mascia per la regia di Antonio De Carlo e il cantautore Alessio Lega promette una versione in musica dei suoi poemi. Un nuova vita, allora, meritata, per il poeta giovane della piccola patria salentina!