Ad Antonio L. Verri

Il 9 maggio 1993 in un tragico incidente perdeva la vita Antonio Verri
Letteratura è impegno
La militanza culturale di Antonio Leonardo Verri

di Simone Giorgino

Nel quindicesimo anniversario della scomparsa di Antonio Leonardo Verri, credo che una maniera opportuna di ricordare l’autore sia quella di soffermarsi su una sua caratteristica distintiva, ossia il suo costante impegno nella letteratura in particolare e nella cultura in generale, minimo comune denominatore del suo concetto di militanza: “il poeta ha una sua funzione sociale: mettersi o mettere continuamente in discussione dogmi, tabù, cretinerie quotidiane e grossi problemi (…). Il poeta non lavora più, o magari solamente, sul nulla o sull’assenza, temi sempre affascinanti ma un po’ vecchiotti; il poeta ha sempre di più responsabilità e problemi di linguaggio, di stile, di aderenza a una realtà abbastanza complessa, di tensione, di rivolta”.

È questa una linea programmatica che già Nicola Carducci, in un suo saggio del 1997, riconduceva al “neoimpegno”, atteggiamento tornato in auge nella letteratura italiana tra gli anni Settanta e Ottanta, finalizzato ad un intervento concreto nella realtà culturale e sociale del proprio territorio, per superarne il presunto provincialismo, l’isolamento che è storico e geografico oltre che culturale; e per tutelarne le esperienze artistiche più rilevanti, come quelle recenti di Vittorio Bodini, Carmelo Bene e Salvatore Toma, gli esponenti più autorevoli di quella che è stata definita dallo stesso Antonio Verri “linea bizantina”.

Verri si sente partecipe di una comunità letteraria definibile come “cenacolo salentino dei poeti minori”, orgogliosa di essere borderline, se per allineata si intende quella cultura ossequiosa col potere editoriale, incline al compromesso: Verri è allora, per dirla con Antonio Errico, “il padre di una generazione stupenda che non ha vinto nulla, né cattedre, né premi, né mortadelle alla cuccagna, perché non ha saputo vender parolette al mercato dell’usato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo ingrassato”. È lo stesso autore di Caprarica a parlare di una stupenda generazione di “poeti che appartengono a una specie diversa, a volte primitiva e barbara, a volte così fine, meticolosa, spigolosa. Facile a perdersi, a divorare, a disperarsi. Non è difficile aver simpatia per loro”. E ancora: “si è parlato di una nuova generazione, di una stupenda generazione, si è anche cercato di dimostrare che il tutto non è una frase fatta, si è fatto di tutto per far intendere che il Salento degli Autori non è più il Salento scrostato che è sempre stato, si è fatto di tutto per far intendere che siamo semplicemente in marcia per cercare di allinearci a tutta quella cultura europea novecentesca che fino a mò era nei nostri libri o svolazzante sopra le nostre teste…”.

Dunque una comunità letteraria agguerrita, competente e competitiva, che non vuole essere sterile parodia delle analoghe esperienze nazionali, ma che cerca di sintonizzarsi con le tendenze più innovative della cultura europea, per uscire dal localismo, per sprovincializzarsi, “per muovere un po’ le acque in una città, Lecce, divorata dall’indifferenza, dall’incultura, dal vuoto accademico. Una città dove passa solo un certo tipo di cultura. La cultura dei putti e delle damine. Del ‘perbenismo impellicciato’”. Viene in mente, a tal proposito, un singolare aneddoto ricordato dallo stesso Verri: “certo eravamo molto fieri del nostro lavoro quando la Corti, venendo a Lecce nell’ ottantadue–ottantatrè, chiese al bar Alvino dove poteva trovare i poeti di Caffé Greco. Le risposero piuttosto seccamente. A Lecce non c’erano poeti, men che meno di Caffé Greco!”.

L’obiettivo di sprovincializzare la cultura salentina diventa una vera e propria ossessione per Antonio Verri, che se da una parte, nelle sue opere, dimostra di aver recepito e metabolizzato le contemporanee tendenze italiane ed europee, dall’altra, nelle riviste, si traduce in atteggiamenti a volte anche velleitari: per uscire dal localismo e internazionalizzarsi non basta fare affidamento a più o meno oscuri corrispondenti dai nomi esotici sparsi in varie parti del Pianeta. È proprio questo, paradossalmente, un atteggiamento da provinciali.

Ma questo toglie poco o nulla alla validità del progetto e alla buona fede di chi lo portava avanti: con l’esperienza del “Ballyhoo–Quotidiano di comunicazione”, ad esempio, Verri riuscì a vendere settecento copie del giornale a Milano, contro le appena quaranta vendute nella sua Lecce; egli è stato uno fra i primi a tenere alta la guardia contro una certa poesia rurale salentina, la già ricordata poesia “da passeggio e da paesaggio”; non aveva, inoltre, alcuna soggezione o timore reverenziale nei confronti di altre riviste omologhe: “[non ho] mai dato quattro copie di Pensionante in cambio di una copia di rivista francese o inglese”; ebbe, insomma, sempre chiara la finalità di promuovere ed inserire gli artisti salentini nei più vivaci fermenti culturali coevi.

Antonio Verri, attraverso le pagine delle sue riviste, si è fatto promotore della scoperta e della promozione di artisti che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra: primo tra tutti Salvatore Toma, il “poeta dei liburni e dei corbezzoli”, a cui dedica, in tempi non sospetti, cioè prima del drammatico suicidio e della quindi prevedibile riscoperta, diversi articoli e recensioni. Il Nostro ebbe una vera e propria venerazione per lo sfortunato poeta magliese, testimoniata non solo dai frequenti cenni disseminati in molte pagine delle sue opere (“Totò Franz” è il nome che inventa per ricordarlo), ma anche da un esplosivo e interessantissimo carteggio fra i due.

Lo stesso discorso può essere esteso, analogamente, a Edoardo De Candia, altro maudit salentino oltremodo vituperato in vita ed oltremodo osannato da morto. Inoltre Verri ha il merito di aver rispolverato la poesia di Vittorio Pagano, che da un po’ di tempo era caduta in oblio; di aver prodotto interessanti considerazioni sulla poesia di Vittorio Bodini; di aver avuto, infine, un’altissima considerazione per poetesse centrali della nostra tradizione come Rina Durante e la compianta Claudia Ruggeri.

Uno degli scritti da cui emerge in maniera più vivida l’“eroico furore” verriano, tutto concentrato sull’impegno culturale, è senz’altro il sarcastico intervento dal titolo Una diecigiorni di letteratura, reportage da un convegno letterario mai avvenuto, apparso su “Caffé Greco” nel Novembre del 1979. In questa occasione Verri si scaglia ancora una volta contro l’editoria assente o refrattaria a percepire gli stimoli provenienti dai nuovi scrittori: “da un po’ crescono grossi imprenditori, che con simpatia chiamiamo editori, a cui questo settore, il letterario appunto non interessa, se non per le poesie dialettali dell’onorevole amico o del grosso barone regionale”. Emerge, inoltre, una concezione della letteratura che chiarisce ulteriormente gli aspetti fin qui esaminati: “Letteratura non è ideologia né pianto, (…), dovrebbe essere conoscenza quindi “degradazione” e quindi rivolta, (…), l’opera letteraria non nasce e vive in difesa di o per accusa a, (…), bensì vive per se stessa”. Impegno (o neoimpegno), dunque, non come militanza politica e ideologica, ma da intendersi come sacrificio e servizio alla sola causa dell’arte, unico contenitore in cui ha senso e si è giustificati ad occuparsi dei problemi della contingenza. Non arte per arte, né vita per l’arte: semplicemente arte come vita.