I linguaggi della misura


un colloquio sul teatro di poesia con l'attore e regista Alessandro Berti

a cura di Azzurra D’Agostino

[ da Lieto Colle Ott-2007 - http://www.lietocolle.it]

Che cosa chiede la parola poetica al corpo, alla voce e allo spazio, quando entra in teatro?
Dal mio punto di vista dipende molto da che tipo di parola poetica viene usata. La maggior parte della poesia è meglio leggerla, in silenzio. Poi c'è una parte che si può leggere a voce alta, non solo senza tradire quella parola ma esaltandola (se si sa come leggerla, ovviamente). Solo una piccolissima parte della parola poetica che io ho incontrato negli anni mi ha fatto dire: ecco qualcosa che potrebbe essere portato in scena. Ovviamente questo è un giudizio molto personale, dipende dalla mia educazione teatrale, del tutto occidentale, shakespeariana e stanislavskijana, una formazione che mi ha insegnato a mettere in scena solo i testi che, tra le righe, contengono una azione, o almeno una relazione. Spesso il fatto che un testo sia teatrale non significa che abbia una scrittura viva, che corrisponda a quello che ho appena detto. È per questo che è cominciata la mia curiosità per la poesia.

Non sono pochi a sostenere che il teatro in Italia stia vivendo un periodo di grande difficoltà. I poeti lamentano la codardia del sistema editoriale. Potrebbe il teatro di poesia essere un modo di accogliere e dunque superare queste due diverse crisi?
Non saprei. Posso parlare del teatro, che conosco meglio. Il teatro ha perso quasi tutto lo spazio di attenzione che ancora aveva quando io ho cominciato, quindici anni fa. Qualche grande spettacolo e una schiera di narratori non possono prendere il posto di qualcosa che non c'è più: una continuità, un'abitudine, una cultura condivisa, una ritualità. Il problema di un rapporto con i poeti mi sembra che sarebbe un problema di 'saperi'. Mi pare che ci siano pochi teatranti in grado di mettere in scena una lingua poetica vera. E anche di poeti veri e con una scrittura adatta alla scena non me ne vengono in mente molti. Poi è chiaro che io sono contento se succedono cose anche caotiche ma vive, appassionate, perché siamo in un momento di tale aridità che bisogna prima di tutto inseguire la vitalità delle cose, non il proprio gusto.

Rendere un volume di poesia uno spettacolo, con solo poche aggiunte drammaturgiche e senza che sia un reading o una performance: questo il progetto che stai curando, sui versi di Claudio Damiani. Come procedi a svilupparlo?
Senza nessuna aggiunta testuale, questa è la sfida. Le poesie di Damiani sono brevi, dunque apparentemente costruire una drammaturgia coerente è difficile. Ma, soprattutto in EROI, il suo secondo libro, i rimandi da una poesia all'altra sono tantissimi e possono dar vita a un minimo di coerenza drammaturgica, fondamentale per una messa in scena. Il grosso del lavoro è con gli attori, che ho scelto piuttosto digiuni di poesia, e di teatro di parola in generale, per provare a partire con loro da zero, dai legami che la poesia di Damiani ha con la vita, con i sentimenti umani, che poi dobbiamo tradurre in qualcosa di tecnico, di pratico, com'è il teatro. Ci sarà un bambino piccolo, di cinque anni, in scena con noi, un cane, degli alberi e lo spettacolo sarà fatto al tramonto, su una collina, si spaccherà la legna, si farà il bucato. Sarà uno spettacolo fortemente aristocratico in questo momento, un angolo di pace che proviamo a prenderci, un gesto di leggerezza e di rivolta sorridente.

In cosa ti colpisce, un poeta?
Mi colpisce sempre, invariabilmente, l'unione tra la sua umanità, evidente, trasudante, e la capacità di dare voce a questa umanità.

La lettura di una poesia è un momento privato, un grande movimento interiore; sembra essere però addirittura rivoluzione quando viene vissuto collettivamente, non solo attraverso un corpo e una voce che sporcano e segnano di vita la pagina, ma anche attraverso il silenzio concentrato di una sala di ascoltanti davvero rapiti dal momento. È un atto di creazione, che ricrea il mondo, che ipotizza una diversa possibilità di comunione e di vita corale. Sono cose che non capitano spesso, ma incredibilmente potenti, quando si manifestano. Il teatro di poesia secondo me può questo. Tu cosa ne pensi?
Penso che sarebbe bello che capitassero più spesso. E penso che perché ci siano tutti gli ingredienti che dici tu ci vuole il concorso di molte forze, perché si crei un circolo virtuoso. Il teatro è un'arte collettiva. Il ruolo di un organizzatore o di un produttore è tanto importante quanto quello dell'artista, perché di persone che amano esperienze come quelle che descrivi tu ce ne sono ma non arrivano quasi mai a varcare la soglia dei pochi luoghi e momenti dove cose del genere accadono. È questo che intendo quando parlo di smantellamento del teatro come insieme di saperi. Ci sono pochi organizzatori capaci e coraggiosi, ad esempio. Oppure, per fare un esempio che mi riguarda: io potrei fare benissimo il piano luci per i miei spettacoli, senza bisogno di un tecnico. Ma voglio avere un tecnico luci, capisci? Perché lui quella cosa la sa fare comunque meglio di me, e se avessi il denaro vorrei uno scenografo, un costumista ecc. Io ho scelto il teatro anche per questa idea di lavoro d'equipe, che però, per motivi economici, e anche culturali, sta scomparendo. Così siamo invasi da dilettanti, da gente che si improvvisa a fare quello che fa, e si vede. In questa fase magari non si vede ancora tanto perché anche il pubblico ormai è abituato ai reality show e alla mancanza di professionalità data per scontata ma tra qualche tempo, quando passerà la moda di tutto questo, si riapriranno scuole in cui di nuovo si imparerà a fare qualcosa come si deve. Forse ti aspettavi una risposta diversa ma io non so affiancare alla tua immagine altro che un gruppo di persone capaci di fare quello che stanno facendo e motivate a farlo. Qualcosa che oggi succede raramente.

Secondo te gli artisti hanno un compito? E che responsabilità comporta?
Ti confesserò che non ci ho mai pensato tanto. Forse perché l'ho sempre vissuto molto praticamente tutto questo: insegnando teatro, incontrando il pubblico, scrivendo spettacoli che facessero ragionare, arrabbiare anche. Non saprei, penso che ognuno la veda a suo modo. In questo momento, se dovessi dire quale è il compito degli artisti, direi che è quello di stare calmi. Cioè di non farsi prendere da questa foga, da questa fretta di farcela, di essere famosi, di godere dei privilegi di casta ecc. Perché se esisterà ancora qualcosa che potremo chiamare arte, sarà qualcosa che nascerà dalla quiete, anche nel mezzo della storia, anche nell'occhio del ciclone, ma comunque in uno spazio da cui lo sguardo di qualcuno, indisturbato e forte, riesca a guardare ciò che accade, e a parlarne. In questo senso mi sembra che, mai come oggi, per essere artisti veri bisogna essere anche persone forti.

Un poeta ha detto che la carta è stanca. Secondo te è così?
Sì, è così, ma è in buona compagnia.

E a te cosa stanca?, in teatro, nella letteratura…
La fretta, come ti dicevo, poi anche il non comprendere l'umanità di chi sta scrivendo, parlando, anche il gioco delle opinioni mi stanca molto, perché il mondo ci sta cambiando sotto i piedi mentre noi ne discutiamo al bar...

Ha senso secondo te fare queste distinzioni “poesia”, “teatro di poesia”, “teatro”…? Cosa hanno in comune? E cosa li separa?
Il teatro è azione, parola che minaccia una azione, che parla a qualcuno di preciso, qualcuno che si ha davanti, è corpo che fa, e qualche volta fa mentre parla, o parla per non fare, e usa una parola carica di qualcos'altro, che sprizza vita, violenza, tenerezza, una parola colloquiale ma fortemente allusiva, come era la lingua fino a pochi anni fa, quando bastava uno sguardo, un modo di accentare una parola perché chi avevi davanti capisse...Oggi servono tante parole per tutto questo, e forse è per questo che il teatro è in crisi, mentre, per dire, il romanzo no. La poesia condivide col teatro questa cosa importante: la necessità, l'amore direi, per l'economia di parole, per l'evocatività dei vocaboli e dei versi. Ma deve ottenere questo effetto senza la presenza reale di un corpo, solo attraverso le parole sulla pagina. Poi, in alcuni casi, come in Damiani, poesia e teatro si avvicinano, perché Claudio scrive sempre in prima persona, usa una lingua colloquiale, sono brandelli di discorso quelli che emergono alla sua coscienza e che diventano poesie. Però, sì, direi che poesia e teatro sono entrambi linguaggi sintetici, che richiedono misura. In questo senso sono due linguaggi aristocratici, monastici, da artigiani intrattabili.

Nella tua vita hai vissuto facendo teatro. Il teatro, come la poesia, come l’arte in genere, sono a tuo avviso necessari? C’è chi dice che sia un bisogno, chi un dovere, chi un privilegio. Sono privilegiati i poeti che conosci? Sono necessari, gli artisti?
Anche a questo ti confesso di non pensare mai. Per me è necessario che l'essere umano stia sul sentiero della propria umanità, un sentiero tutto curve e paesaggi diversi. La bellezza è un bisogno dell'essere umano, uno dei panorami di cui ha bisogno. Come l'amore, la libertà, il riposo. A partire da questi bisogni gli uomini, secondo me smarrendosi dal loro sentiero, costruiscono istituzioni, corporazioni, poteri, privilegi. Non amo la corporazione degli artisti come non amo nessun'altra corporazione. Io non ho mai avuto problemi a vivere di teatro, problemi con me stesso intendo. Ora ci sono scenari economici che rendono molto difficile continuare a vivere del teatro per come lo interpreto io, e forse c'è anche una certa stanchezza in me nel momento in cui sempre di più un regista teatrale deve essere promotore di se stesso e sempre meno artista. In questi anni sto scrivendo, molto di più di quanto faccia teatro, perché la scrittura mi sembra che mi metta più alle strette, dia pane ai denti della mia intransigenza. E poi a dir la verità io scrivo da quando ho dodici anni, quindi la scrittura mi ha sempre accompagnato e ora si sta facendo più vicina, come se finalmente, nell'isolamento degli ultimi anni, nella diminuzione dei ritmi di lavoro, riuscisse a trovare uno spazio per parlarmi, insomma qualcosa di intimo e bello, anche se faticoso, perché per uno che per quindici anni è saltato sulle assi del palco come un matto trovarsi ore al tavolo a scrivere è dura...Comunque vedremo, come non ho avuto problemi a vivere di teatro, non ne avrei a vivere di scrittura. Il problema vero è che qua, oggi, se si vuole lavorare con serietà e pazienza, si rischia di non vivere più né dell'uno né dell'altra.

La poesia dice eternamente il suo tempo. Secondo te, cosa ci dice quella del nostro tempo?
Non la conosco abbastanza per esprimere un giudizio. In generale mi piace la poesia più semplice, in ogni tempo. Semplice, economica, essenziale. Questo tipo di poesia mi parla. Non mi piace la poesia troppo ellittica, come certe volte è la poesia contemporanea, perché non ho bisogno di ulteriore confusione, ho bisogno di qualcosa di forte e semplice. Ho bisogno di una voce oltre che un cervello.

Un poeta su cui ti piacerebbe lavorare
Claudio Damiani è davvero l'unico poeta contemporaneo che conosca la cui scrittura io possa trasporre in teatro.

Scrivi poesia?
In questo momento no. Negli anni scorsi, sì, ho scritto poesia, e anche tre cose che poi sono andate in scena, a Santarcangelo, a Volterra e a Milano. Quasi dieci anni fa già. Ma era una specie di poesia usa-e-getta, per così dire, cioè erano esperimenti folli, in cui per un mese si provava con la compagnia e io ogni mattina scrivevo qualcosa, pensando all'attore che poi doveva interpretarlo. Ho ricordi bellissimi di quegli anni, che sono stati un apprendistato eccezionale, una bottega drammaturgica unica. Anche la scrittura che usciva da questo stato di pressione non era cattiva, con alcuni difetti tipici della fretta ma direi onesta. Ora sto scrivendo prosa, una prosa che però mi sembra contenga tutto il lavoro di questi anni tra teatro e poesia.