Enza Pagliara, il mistero della voce

di  Antonio Errico

Con il passare del tempo e canto dopo canto, la voce di Enza Pagliara si fa sempre più sorprendente, quasi misteriosa. Talvolta è un soffio, una vibrazione leggera; talvolta è un gemito, un respiro, un sussulto; altre volte diventa poderosa, come se fosse rimasta nascosta per secoli in un tronco d’ulivo,e poi avesse scelto un corpo per potersi concretare. Talvolta è come se la sua voce raccogliesse il vento, l’onda, la luce della luna, la secchezza delle zolle, l’odore della pioggia, il silenzio di una marina d’inverno, i colori strabilianti dell’estate, le fioriture della primavera, certi tepori e sopori autunnali.
E’ la voce di una cantatrice epica, una narratrice di storie, che modula sapientemente i toni per un canto di rabbia e d’amore, per una ninna nanna, per l’accensione di una pizzica.
Esce in questi giorni il suo nuovo disco, Bona creanza (edizioni AnimaMundi): un intreccio di linguaggi e di temi, un racconto che alterna tensioni e distensioni narrative, accuratamente tessute nella successione dei brani.
Con questo disco diventa ancora più marcato il movimento verticale e orizzontale  che Enza Pagliara  compie nell’ambito della tradizione del canto popolare. L’operazione culturale mi pare che abbia notevoli analogie con quella che ha caratterizzato la poesia in lingua dialettale del Novecento italiano, con la trasformazione da lingua di popolo in lingua letteraria, da lingua delle realtà in lingua d’arte.  
Quando Enza Pagliara si confronta con un canto, lo fa dopo averlo elaborato in relazione al suo pensiero, alla sua sensibilità, alla sua visione del mondo e dell’esistenza. Probabilmente è questa la condizione che poi definisce la connotazione del suo stile, la personalità artistica che contempera dolcezza e sicurezza d’espressione. C’è una relazione profonda tanto con l’origine quanto con le forme nelle quali quell’origine si è trasformata. Allora ogni suo canto è, prima di tutto, una relazione con il tempo, con la cifra del passato e del presente, con il suo tono e con il suo senso, ne sintetizza coerenze, incoerenze, contraddizioni,  i ritmi, i simboli, le inflessioni.
Nel canto di Enza Pagliara c’è una componente d’istinto e una di riflessione che si integrano, si combinano, s’impastano fino a generare quella condizione di originalità assoluta, inconfondibile. Se dovessi rintracciare nel suo canto, anzi nel motivo o nel movente del suo canto, nei filamenti della sua radice, il nucleo da cui ha origine, il levito, l’essenza, ci troverei una tenerezza e una malinconia. Forse una malinconica tenerezza: per le cose che  sono state e che non sono più, per le voci che si sono perse e che lei vuole stringere nella sua voce; una malinconica tenerezza per il volto di questa terra,  per le sue sontuosità e le sue miserie, per la sua lingua antica, per le sue fiabe, i suoi racconti silenziosi.
Ogni canto di Enza Pagliara è una  recherche du temps perdu, una madeleine proustiana che rigenera e rinnova il tempo di una cultura, la storia di una gente.