Di tanto tempo, scaglie di scrittura

Antonio Errico

In fondo si scrive per dare una forma alla propria vita, e forse per nient’altro. Alle passioni, alle occasioni, alle emozioni, ai sogni, alle rabbie, ai desideri, agli amori e ai disamori, alle delusioni, agli incanti e ai disincanti. Per renderli riconoscibili a se stessi; per rendersi riconoscibile, per trovare o ritrovare il senso dei propri giorni: di ciascun giorno com’è, irripetibile e assoluto. Non c’è un solo giorno che sia come un altro ch’è già stato oppure che sarà, che possa avere gli stessi pensieri, le stesse malinconie, gli stessi progetti, le stesse speranze o disperazioni.

Allora se si raccontano i giorni, le forme della scrittura devono essere diverse, molteplici, intrecciate, integrate, complesse, e siccome i giorni sono fatti di frammenti – scaglie di tempo, armonie e disarmonie combinate in maniera spesso anche misteriosa- di frammenti dev’essere fatta la scrittura, di armonie e disarmonie.

Così è fatto il libro di Paolo Vincenti pubblicato dall’editore Pensa con il titolo Di tanto tempo (questi sono i giorni), con puntualissima prefazione di Vito D’Armento e personalissima postfazione di Stefano Delacroix .

Non è un romanzo. Non è un poema. Non è un saggio. E’ fatto appunto di scaglie di scrittura che hanno la forma della narrazione su cui s’innesta la forma della poesia e che a volte prendono la sembianza dell’annotazione filosofica, della riflessione. Sono frammenti che contengono stratificazioni. Perché poi la scrittura proviene sempre – inevitabilmente – da altra scrittura, antica o contemporanea. Ogni parola è acqua che si tira da un pozzo. Che per Paolo Vincenti è profondo,molto. Per questa scrittura si cerca compagnie e dichiara quali sono: Virgilio, Eraclito, De Gregori, Dante, Vecchioni, Alceo, Il Capitano Black, Jim Morrison, Verlaine, Penna, Guccini, Bodini, Comi, Pagano, Verri, Fiore, Pasolini. Per esempio.

La scrittura si pone davanti al tempo a petto nudo, per impedirgli il passo anche attraverso il sacrificio. Impone ad essa il nostos, attraverso la condizione della memoria. In questo modo la scrittura sprofonda nel tempo e riprende stagioni, giorni, attimi, restituendoli all’esistenza.

L’identità probabilmente è questo: l’esito di passato rievocato e di presente, una fisionomia che si delinea attraverso il confronto serrato, talvolta lacerante, con il tempo e con le sue espressioni, le sue figurazioni, i suoi fantasmi, le paure che suscita e i suoi richiami seducenti.

Vincenti compie questo percorso, ma lo fa con ironia, con autoironia, soprattutto, con ricercata leggerezza. L’ironia, si sa, è spesso – o forse sempre – un meccanismo di difesa. Come ogni uomo di ogni tempo, come ogni uomo di ogni tempo che ha scritto parole sopra i fogli, che ha dato forma alle sue felicità e alle sue angosce, Vincenti ha bisogno di staccarsi dalla scrittura. C’è chi lo fa teorizzando la finzione, c’è chi lo fa con l’ironia. Per non farsi sopraffare, per non farsi catturare come mosca nella tela tessuta dal ragno. Perché, poi, la scrittura è quella tela che l’Altro che si è quando si scrive tesse, senza pazienza, per catturare l’innocenza di essere , l’incantevole stupore che l’uomo si tiene dentro, gelosamente.