Antonio Errico Le ragioni della passione (Approdi e avventure del sapere), Kurumuny ed.

L'“effetto-Errico”: lascia trasognati, avvolti in una seta, un’aura, conduce in una condizione di extraterritorialità sensoriale. È quello che lui stesso indica come canone ermeneutico (una delle condizioni necessarie per “leggere bene”): leggere vuol dire dislocarsi.

Antonio Errico, Le ragioni della passione (Approdi e avventure del sapere), Kurumuny ed.

Il Maestro e la Lampada di Aladino
Emanuele Filograna

Il narratore, etimologicamente, è un “esperto” (radice gnarus). Si può partire dal presupposto che Antonio Errico conosce bene ciò di cui parla, e soprattutto che parla di ciò che ha più a cuore: l’insegnamento e la memoria. Se quest’ultima è il materiale con il quale sono stati costruiti espressamente almeno due libri precedenti dell’Autore, e che comunque ha percorso come 'fil rouge' tutto ciò che è sgorgato dalla sua penna, l’insegnamento è parte dell’altra vita, quella per così dire fuor di metafora, del preside/scrittore Antonio Errico.


L'oblio e... il libro
L. J. Lauand sosteneva che tutta l’educazione occidentale si edifica su un assunto: “l’uomo è un essere che oblia!”. Per questo la maternità delle muse stesse è posta in capo a Mnemosyne: la missione profonda di qualunque trivio e quadrivio è quella di indurre 'ri-trovamenti', di far sperimentare cose già provate o sapute che senza l’atto pedagogico sarebbero rimaste inaccessibili.

Ma se insegnare è raccontare le cose del mondo, ciò che lega insegnamento e memoria è proprio la narrazione: ricordiamo ciò che possiamo narrare, non conosciamo altro modo per insegnare se non raccontare le cose che vale la pena di ricordare.

Questa la dichiarazione di (po)etica di Errico: non esiste la storia oggettiva, nè tanto meno la si può insegnare (soprattutto quando si tratta dei tempi a noi più vicini); neppure esiste la cronaca asettica (che finirebbe per essere un ripiego e soprattutto cattivo esempio di brutta copia del racconto). Invece, tutto è racconto, a condizione che l’intimismo non sia pervasivo al punto da far ripiegare in monologhi autistici incomprensibili ai più.

Le narrazioni, poi, trovano posto in un oggetto tutto speciale: il libro, di cui Errico dà una definizione davvero speciale magnifica: piccola cosa, “deperibile, che si somma ad altri libri, soggetta al saccheggio impietoso dei tarli, all’ombrosità giallastra che il tempo spande sulle pagine”. L’unico fra gli oggetti, fra le ‘cose’, a sopravvivere: al suo autore, al lettore, ai falò e agli incendi delle biblioteche. Cita Shakespeare (senza libri saremmo degli sciocchi) e adombra che basta sottrarre i libri per smantellare le individualità e intere società.


L'educare e la disciplina

Un altro nucleo tematico argomentativo dei saggi in veste semi-poetica, è quello che verte attorno al concetto di 'disciplina', utilizzato per contrapposizione all’insegnamento tout court, non riducibile quest’ultimo al mero impartire il contenuto dell’una o dell’altra materia, in quanto non è esso stesso, limitativamente, una disciplina: si può insegnare solo con sensibilità, suscitando la sensibilità del discente (citazione da Comenio: “vieni, ragazzo... ti condurrò dappertutto...”), sempre ricordando a sé e agli animi che si educano, che la pedagogia è un fatto esperienziale (Serres: nessun apprendimento potrà evitare il viaggio !). Si può educare solo dopo aver ottenuto il possesso delle singole discipline, ma non senza avere acquisito anche la virtù di Chirone, il centauro dotto e gentile (tanto preziosa da essere rivendicata come legato dallo stesso Prometeo): quella, cioè, di fare in modo di ritrovarsi ormai inutili alla fine dell’apprendimento.

Forse per questo, scorrendo il fraseggiare sognante, coinvolto e coinvolgente di Errico, non si può fare a meno di provare un senso di compatimento verso le pretese di insegnare la pedagogia (paradosso riflessivo) e le relative presunte 'skills' (orribile dictu!) ai futuri insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, mediante appositi corsi di formazione variamente denominati, così come si pretende di insegnare la deontologia professionale ai futuri avvocati dopo un corso di giurisprudenza nel quale pure si studia filosofia del diritto, e dunque l’Etica a Nicomaco e Spinoza, La Repubblica, Cicerone e Rawls, supponendo allora che ciò non sia ancora sufficiente!

Errico riversa in queste brevi cellule saggistiche 'extravagantes' tanti autori evidentemente amati e meditati, permettendoci di spiare così nella sua personale Moleskine di tante e tante letture. Riporta il Fedro e Galileo, il Cratilo e Pavese, Plotino e Baudelaire, cita Bloom, Gardner, Potocki, Morin, il Garboli di una definizione che lascia trapelare essergli particolarmente cara e congeniale in entrambe le alternative: “Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero con le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo”.


Leggere e poi ri-leggere

Alla prima lettura il libro produce il tipico “effetto-Errico”: lascia trasognati, avvolti in una seta, un’aura, conduce in una condizione di extraterritorialità sensoriale. È quello che lui stesso indica come canone ermeneutico (una delle condizioni necessarie per “leggere bene”): leggere vuol dire dislocarsi. Ma volendo seguire un altro consiglio di esegesi del libro stesso, poiché nulla si rivela mai al primo incontro, si deve tornare a rileggerlo, per riflettere meglio su quello che era sfuggito.

In effetti, il procedere, se non il tono stesso, è sapienziale (a volte oracolare), forse in alcuni casi addirittura assertivo, praticamente tutto paratassi. Dal punto di vista logico la più parte delle proposizioni sono 'definizioni'. Alcune sono tautologie (l’identità non è altro che un esito della memoria; la bellezza è tutto quello che sappiamo e dobbiamo sapere, ecc.). Altre sono definizioni estensionali (il racconto: è un atto magico; è l’unica possibile espressione di vita; è ciò che segue il tempo; è ciò che presuppone consapevolezza, ecc. Ed ancora: la narrazione: è combattimento a mani nude; è corpo a corpo con la memoria; è una domanda che si accende, ecc.). Altre ancora sono vere e proprie dimostrazioni secondo il 'modus ponens' o il 'modus tollens' (ogni atto di insegnamento è un atto di memoria; ogni parola viene da lontano portando concetti che sono l’esito di azzardi del pensiero; quindi si insegna memoria ogni volta che si pronuncia una parola... Ed ancora: si insegna memoria portando l’apprendimento ad una coscienza; non si può insegnare una memoria che dice di se stessa con una sorta di vuota auto-citazione, 'ergo': la memoria non si insegna facendo imparare a memoria quando questa esperienza è vuota di significato).


La 'forma' del saggio

E non si può che ricorrere alle parole di Alfonso Berardinelli (“La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario”, Marsilio, 2002) per tentare di trovare strumenti che possano contribuire all’impresa di dare, a nostra volta, una definizione alla raccolta di Errico, che difficilmente si lascia incasellare. Berardinelli ricorda infatti come il 'saggio letterario', nell’ultimo scorcio del ‘900, abbia “una maggiore freschezza e maggiori potenzialità inventive, conoscitive (fino al punto di poter inglobare, rielaborare e infine ereditare compiti e funzioni delegate fino a ieri ad altri generi)”, sebbene l’uso in questo senso della forma-saggio possa far incappare nel pericolo che “mettendo insieme spunti descrittivi e spunti teorici, si resti in una terra di nessuno, o in una zona intermedia che finisce per scontentare tutti”. Questo rischio è appunto quello che corre Antonio Errico, ma felicemente: unendo cioè il suo ormai tradizionale stile 'lirico' con un “temperamento di prosatore logico e corretto” che sinora non era ancora comparso nei suoi volumi narrativi.

Parlando di ciò che gli ha attraversato l’esistenza, Errico rimane costantemente in bilico tra i libri e la vita. E lo fa esprimendo la sua 'écriture' (Barthes), assumendo la responsabilità sociale di dire parole importanti, 'compromesse': sulla storia, la memoria, l’insegnamento. Condensando concetti che è raro ascoltare nell’attuale orizzonte pubblico (in disparte talune riduzioni in commedia della situazione comatosa in cui versa la scuola o ricorrenti e sguaiati 'peana' sull’obliterazione dei classici).

Un’immagine si deve rubarla, a mo’ di chiosa, per trarsi d’impaccio dall’arduo compito del recensore di un libro intimo e pubblico allo stesso tempo, intenso e godibile tutt’assieme: effettivamente, Errico riesce a fare in modo che ad ogni passo “si manifesti una figura, come dalla lampada di Aladino, che abbia fisionomia di un volto conosciuto, il suono di una voce familiare”. E’ precisamente quello che dovrebbe fare un bravo maestro, capace di sollecitare ogni giorno un argomento diverso e far comparire interi mondi dinanzi agli occhi dei suoi allievi per incantarli e metterli in grado di realizzare da sé le loro aspirazioni, suscitandone al contempo di sempre nuove.

Per Errico si tratta di un riflesso del suo stesso carattere, per il quale, oltre che per i meriti ‘professionali’, strappa l’affetto di tutti i suoi lettori e degli amici.