Senza storie di Luisa Ruggio













Antonio Errico

Certo che ha ragione Raymond Carver quando dice che è difficile essere semplici, e ha ragione Karen Blixen che bisogna scrivere una storia semplice con la massima semplicità perché nella semplicità di una storia ci sono già abbastanza complessità, ferocia e disperazione.

Hanno ragione Carver e Blixen e fa bene Luisa Ruggio a metterli in epigrafe a due dei racconti che compongono il suo “ Senza storie”, edito da Besa.

Racconti brevi. Frammenti di una narrazione composita, coerente, coesa, che trova i nodi narrativi in un linguaggio lavorato fino al punto da diventare trasparente e cristallino, in un processo di rivelazione del sé che spesso si ritrova e si riconosce nel confronto con l’altro e con le storie che si intrecciano intorno, che maturano dentro, che passano negli occhi come un’alba o un tramonto, che ti saltano addosso ad un angolo di strada, che ti accerchiano in una notte di insonnia, che ti siedono accanto nel vagone di un treno. Racconti attraversati da uno sguardo un po’ ingenuo e un po’ scaltro - comunque stupefatto - sulla semplicità feroce e disperata delle storie che accadono o che si sognano o che si fantasticano.

La modalità di composizione di questi racconti - per esempio l’incipit, la comparsa dei personaggi, gli improvvisi cambi di prospettiva – fanno pensare che Luisa Ruggio non cerchi le storie ma che da esse si lasci intenzionalmente trovare.

La materia del racconto è la vita di ogni giorno. Ma è come se fosse stata liberata dal peso del reale, guarita dal dolore del tempo, sottratta alle costrizioni dello spazio. Raccontando Luisa Ruggio prende le occasioni dell’esistere e le ricolloca in una sospensione di spazio e di tempo che le salva dal transeunte, dall’effimero, dal nulla che aggredisce ogni storia, con tutta la sua bellezza, con tutto il suo stupore.

La brevità della misura è la traduzione in una forma della brevità del tempo che si concede alla vita e al suo racconto. Come se tutto si consumasse in una vampa. Come se ogni giorno non fosse altro che un incontro con se stessi al bar degli appuntamenti mancati. Lì “ dove i viaggiatori vanno a scrivere le lettere che andranno smarrite. Le sole che contino qualcosa, quelle in cui non si mente neppure una volta”, quelle che i rigattieri comprano quando “ è ormai troppo tardi per quegli strani sembianti del cuore umano”. E’ vero: si impara che tutto quello cui siamo abituati può finire in un attimo, così: si apre una crepa nel cuore, si spalanca un vuoto di sguardi. Si impara che l’inutile tentativo di fare un bilancio delle storie che si sono vissute, per le quali si è avuta la febbre di una passione, per le quali si è stati sempre in veglia in un continuo sogno, si schianta contro un senso interdetto, una negazione meravigliosa e tragica.

Allora tutto scompare all’improvviso, si dissolve, sprofonda nella botola della dimenticanza.

Chi volesse tentare di salvare qualcosa ( qualcuno?) può farlo soltanto attraverso le parole di un racconto.

Questo fa Luisa Ruggio: racconta per salvare. Chi ha fatto strada assieme e poi a un certo punto l’ha cambiata. Chi non vorrebbe mai dimenticare e chi si strappa il cervello per farlo. Racconta per salvare quelli che si girano e se ne vanno, quelli che quando ti prendono sono come una poesia, che quando ti lasciano ritornano poesia. Quelli che si abituano alle presenze e poi alle assenze, quelli che non si smette mai di aspettare, quelli che rinunciano perché hanno ragioni infinite, quelli che rinunciano perché non ne hanno.

Luisa Ruggio racconta per salvare chi resta da solo e ha paura che i fantasmi si prendano beffa di lui, che lo stordiscano, che gli mettano paura. Per questo motivo racconta.