Salvatore Toma e l’amore per la natura

A me Dio piace indovinarlo/ in una pietra qualunque,/ in un'infanzia serena,/ in un frutto maturo,/ nell'onda del mare,/ che come la morte cancella il mio nome".

In Salvatore Toma c'è “una tensione del corpo verso le parole che precede ogni immaginario. Le parole si fanno vita, esistenza tesa alla poesia come la corda tende l'arco alla sua massima potenza. La poesia, come massima espressione della vita.

Francesco Aprile

La fine come inizio non poteva che essere il risultato di una voce eterna, da consegnare all'etereo sentire di un palpito nell'aria. Nella poetica di Salvatore Toma, retoricamente parlando, si intrecciano la morte, l'amore, la natura. Ma c'è consapevolezza, parole che raccontano di una morte che si fa Uno ed esclude il molteplice per poter essere in Dio. Due stati di morte. Quello apparente, quello reale. Quello apparente è una fuga, motivo di catarsi come lo è, all'interno della sua scrittura, l'aspetto animale, il volo degli uccelli. La morte come l’inizio della vita vera. Nascere, crescere e morire per poi essere liberi. Nel gesto estremo stanno i germi della vera vita, della libertà, del riconoscere-conoscere se stessi fino in fondo, in maniera diversa, nuova. “...Ci ho messo una croce e ci ho scritto sopra, oltre al mio nome, una buona dose di vita vissuta. Poi sono uscito per strada a guardare la gente con occhi diversi...”.

Ma c'è anche un'altra morte e coincide con l'idea di Dio raccolta dalla Corti nel postumo "Canzoniere della Morte". "La mia idea di morte si fa chiara/ in questo vuoto, come l'idea di Dio./ A me Dio piace indovinarlo/ in una pietra qualunque,/ in un'infanzia serena,/ in un frutto maturo,/ nell'onda del mare,/ che come la morte cancella il mio nome".

Dio che è in ogni pietra, in un'infanzia serena, è il Dio che ha in sé tutte le perfezioni. Dio che, come un'onda, cancella il nome di ogni essere dopo la morte, è il Dio che è Uno, a cui conviene l'essere puro e non la molteplicità. Ma c'è una nuova religione in Toma, l'uomo e la natura si fanno enti spirituali, una religione animale, senza croci e spine, ma solo col sogno di un volo come liberazione. Toma ci consegna un naturalismo tribale, una sorta di pietas verso gli animali, un ritorno al primitivismo, seguendo le vie primigenie surrealiste, fuggendo da esso, però, nella mancanza di una scrittura automatica, ma scrittura pesata e forgiata dalla natura, dall'amore per gli animali, dal suo cogliere l’attimo.

"Quando sarò morto/ che non vi venga in mente/ di mettere manifesti:/ morto serenamente/ o dopo lunga sofferenza/ o peggio ancora in grazia di Dio./ Io sono morto/ per la vostra presenza".

Autore raffinato, nascosto dietro finta sciatteria metrica, di una scrittura selvaggia che è un continuo manifestarsi e adagiarsi di vita fiabesca, che altro non può fare se non stagliarsi fra natura e parole. In Toma accade che il mondo reale si evolva cattivo, come la società ed il suo essere arida, cinica, oscura. E l'unico rifugio è un volo, una fuga nel mondo "animale", "naturale", come lo sguardo di un bambino, l'essere in rapporto col fiabesco lungo le corde di uno sguardo che ammicca costantemente allo stupore, invaghito delle fughe nell'incanto. Il regno animale come catarsi.

La sua è una poetica dell'incanto, dove natura, morte, amore, altro non sono che la manifestazione suprema del suo stupore, il punto massimo di un'esistenza conscia di una tensione del corpo verso le parole che precedono ogni immaginario e, anzi, si fanno vita, esistenza tesa alla poesia come la corda tende l'arco alla sua massima potenza. La poesia, come massima espressione della vita. Ed è a questo punto che natura, amore, morte, si fondono nella poesia, in una vita che è poesia stessa, massima espressione della parola in versi.

"Il poeta esce col sole e con la pioggia/ come il lombrico d'inverno/ e la cicala d'estate/ canta e il suo lavoro/ che non è poco è tutto qui./ D'inverno come il lombrico/ sbuca nudo dalla terra/ si torce al riflesso di un miraggio/ insegna la favola più antica".

Il poeta è, così, natura, e dunque amore, perché in Toma solo l'amore regna verso la natura, e, poi, è morte, favola e stupore. L'incanto della favola più antica. Parole in cui vita e morte coincidono: “Alla deriva/ c’è invece il mare/ il mare aperto infinito/ alla deriva/ c’è finalmente la vita/ filtrata digerita/ c’è la leggerezza/ del corpo vuoto”.

La vita e la morte che coincidono sono la paura più grande per lo stesso Toma, l’impossibilità di tornare al passato, raggiungerlo, ripetersi, lo strazio più grande per il suo amore, per la sua donna, dove le sue parole si tramutano, da parole per la sua donna assumono i connotati del suo dilaniarsi l’anima alla ricerca di ciò che il tempo sacrifica sull’altare della vita/morte. L’equilibrio è un ammiccare al vento, la pace degli intenti è un susseguirsi di sé allo scoppio di un’emozione, rintracciarsi nella luce del sole al mattino, nella luce del sole al tramonto, nella luce della luna la sera, sotto un corpo percorso da stelle ed un cielo di piante, fiori erba. Dissolversi nello scorrere dell’acqua di un fiume, sfociare nel mare e ritrovarsi nuovo, raggiungersi e scoprirsi nascosto nel fondale marino invaso da pesci e desideri di luna ondeggiante, nei capricci dei palpiti assopiti che si risvegliano sotto i colpi della brezza nell’incessante ricerca dell’attimo trafugato dalle parole, in una continua versificazione della vita/morte, dei piaceri/dispiaceri. Contare paure che si dissimulano ai quattro venti, lungo le pieghe della felicità di un bambino, nella naturale dolcezza di un cielo che scopre tutta l’essenza di un incantato indovinarsi fra le forme delle nuvole.

Salvatore Toma, è nato a Maglie l'11 maggio del 1951. Poeta, muore il 17 marzo 1987 per via di una cirrosi, declino alcolico del corpo. Dal 1970 al 1983 pubblicò sei raccolte in versi: Poesie, Ad esempio una vacanza, Poesie scelte, Un anno in sospeso, Ancora un anno, Forse ci siamo. Maria Corti, curò l’edizione del “Canzoniere della Morte”, pubblicato postumo da Einaudi.