Tracce di Mani

Sino al 15 giugno prossimo si possono mirare, ammirare e contemplare - lasciandosi rapire e sognando quel che ispirano - le opere d'arte che dimorano a Lecce nello spazio della Galleria “Tracce” in Corte dei Romiti.

Vito Antonio Conte

Dal 30 maggio scorso e sino al 15 giugno prossimo si possono mirare, ammirare e contemplare - lasciandosi rapire e sognando quel che ispirano - le opere d'arte che nel tempo che ho detto dimorano in Lecce nello spazio della Galleria “Tracce” presso la Corte dei Romiti.

L'iniziativa, denominata “Artigianato tra Arte e Design”, è curata da Fernando Perrone e Vittorio Tapparini (altre informazioni per quel che qui non dirò le trovate in loco e sul catalogo - originali le fotografie di Bruno Barillari - stampato per l'occasione). Come s'intuisce sin da subito dal nome voluto per questa collettanea, le opere presenti coniugano l'arte e l'artigianato, tendendo - in una contaminazione prossima al superamento di qualsivoglia schema imposto e non - al design, facendone non una mera rassegna di “prodotti” dell'estro del singolo artista, ma l'incontro di tante diversità traverso le quali può notarsi (o, se volete, intuirsi) un fare ch'è espressione di un pensiero: la meridianeità che (col suo ritmo lento e, a volte, sincopato) esplode abbracciando concentricamente tutti gli altri punti e poli, affermando la propria essenza.

In ordine rigorosamente di catalogo, segnalo le sculture “concettualmente utili” di Fernando Perrone, le cartapeste dall'empatica miscellanea di natura e moti d'anima di Laura Galli, la forza sferica primordiale delle creazioni di Marco Galli, la materica astrattezza oltre ogni oltre di Vittorio Tapparini, i passi di pietra e d'acqua di questa Terra che guarda ai petali d'Oriente di Ornella Durini e poi forme d'oro mai viste in monili che sembrano altro e d'altro nelle creazioni di Mario Miscuglio e Paola Barrotta. E, per parlare delle creazioni di moda di Antonio Extempore, vi dirò che la sera dell'inaugurazione, giunto vicino ai due splendidi abiti da donna in bella mostra, ho pensato (e detto a chi mi accompagnava) che - se rinascessi femmina (e non a caso non dico donna) - vorrei indossare uno di quei gioielli... Di Bruno Maggio ho apprezzato l'arcaicità fabulosa delle sue ceramiche, nel mentre le opere di Monica Righi mi hanno suscitato un'esplosione di morte e di vita, d'opposti che si incontrano. Gabriele Pici sembra trafiggere la pietra leccese, prima, e carezzarla, poi, imprimendole tratti di essere tra corporeità e respiro. Le creazioni per la danza e la moda di Elena Cretì mi hanno fatto un effetto strano: ho visto Andreina (mia figlia) nel saggio di fine anno con indosso quel vestito da ballerina e, portando oltre l'immaginazione, l'ho vista donna... indossare lo spettacoloso abito da sera lì esposto (e, un po', mi... duole!?!). Di Isaia Zilli m'è rimasta la spigolosa profondità... marina. Delle opere di Lucia Mancini avevo già notato il moderno splendore e l'antica pulizia passando dal laboratorio dell'Ocra. In fine, Tonio Bisconti: di lui e del mio amore per la sua purezza interiore ho già scritto in un pezzo monografico su questo giornale... e raramente mi ripeto. Questo è uno dei pochissimi casi. E lo faccio perché Tonio Bisconti è spirito libero che permea di sé ogni cosa che tocca e, in particolare, dà il meglio del suo mondo interiore quando “scolpisce l'argilla”, ché i suoi “monumenti” di terracotta sono simulacri sempre in bilico tra sudore e trascendenza, siccome le sue creazioni minimaliste contengono del pari briciole di umano percorso e ricerca del divino. E non dico stronzate, ché è sufficiente accostarsi a una qualsiasi (che non è mai una qualunque) delle sue opere, guardarla, sentirla, sfiorarla con la mano e coglierne le vibrazioni... ché di lui vivono! Provare per credere. E che il totem sia con voi.