Antonio Prete - Stare tra le lingue









Multilinguismo, migrazioni e traduzione
Per un’ecologia delle lingue

[Il giorno 22 maggio 2009, presso l’Auditorium del Ghoete-Institut a Roma, si è svolta una tavola rotonda sul tema “Pluralismo: una fantastica opportunità! – Le prospettive in un’Europa che cresce”. Alla tavola rotonda hanno partecipato Tullio De Mauro, Antonio Prete, Daniele Archibugi, Giuseppe Zucconi, Carlo Rubinacci, con la moderazione di Luigi Illiano, direttore del “Sole24 Ore Scuola”. Riportiamo di seguito l’intervento del nostro conterraneo Antonio Prete.]

"Pensiamo alla ricerca di quel che sotterraneamente unisce tutte le lingue, alla ricerca di quella sostanza che trascorre in tutte le lingue, come il silenzio, il ritmo, la musica del verso nella poesia, l’immagine, l’onda dei suoni, il rapporto tra le vocali e il canto, la relazione della parola con il vivente che essa designa e accoglie nel suo suono. E' la pluralità delle lingue, l’esperienza della pluralità, permette la percezione di questa sostanza".


Stare tra le lingue
Antonio Prete


Pluralità delle lingue e prima lingua
Proprio a partire dalla pluralità delle lingue - dalla festa delle lingue, dalla diversità linguistica - si è generato il mito della prima unica lingua, di volta in volta lingua edenica, o prebabelica, lingua pura o lingua che è principio, culla, fondamento di tutte le possibili lingue. Un mito che Leopardi, in polemica con le ricerche dei romantici sull’indoeuropeo, definiva “un frivolo sogno”. Ma d’altra parte straordinarie interrogazioni sulla lingua sono venute proprio da questa ricerca di un’anteriorità pura, magica, nella quale il nome doveva corrispondere all’essenza della cosa: pensiamo a come in Benjamin questa ricerca è produttiva di singolari e profonde osservazioni sul tradurre, sul compito del traduttore. Pensiamo alla ricerca di quel che sotterraneamente unisce tutte le lingue, alla ricerca di quella sostanza che trascorre in tutte le lingue, come il silenzio, il ritmo, la musica del verso nella poesia, l’immagine, l’onda dei suoni, il rapporto tra le vocali e il canto, la relazione della parola con il vivente che essa designa e accoglie nel suo suono. Ma proprio la pluralità delle lingue, l’esperienza della pluralità, permette la percezione di questa sostanza. Stare tra le lingue, per un poeta, vuol dire mettersi in ascolto di questa sostanza che è prima e dopo ogni lingua, e che allo stesso tempo è nel cuore di ogni lingua. Inoltre questa domanda su quel che è prima e oltre ogni singola lingua ha dato il senso della parzialità , dell’imperfezione, del limite di ogni lingua: “les langues imparfaites en cela que plusieurs, diceva Mallarmé, manque la suprême”. Ma proprio la pluralità delle lingue, il riconoscimento della babele come ricchezza, non come condanna, ha favorito l’attenzione sia alla singolarità delle lingue, alla particolare storia e cultura di ogni singola lingua, sia la tensione verso il dialogo tra le lingue, dialogo di cui la traduzione è la forma forse più profonda e complessa. E’ questa doppia direzione dello sguardo che è importante : lo sguardo verso quel che unisce le lingue, o che trascorre tra le lingue, e lo sguardo verso la specificità, multanime, storicamente e culturalmente sedimentata, vivente, di ogni singola lingua. Da qui discende, può discendere, sia la tensione al confronto tra le lingue sia la cura a che ogni lingua sia preservata. Un’ecologia delle lingue è urgente, oggi che anche le lingue, come le specie vegetali e animali, si vanno estinguendo.

Migrazione e multilinguismo
La migrazione, come disloca le persone, disloca una lingua, una pluralità di lingue. L’ospitalità verso chi emigra, il riconoscimento dei suoi diritti – d’asilo, di salute, di scolarizzazione, di lavoro, di cittadinanza - riguarda anche la sua lingua. La quale è connotazione forte di identità, di memoria, di appartenenza. Per chi emigra, preservare questo rapporto con la lingua d’origine, vuol dire potersi mettere in rapporto con gli abitanti del paese ospitante a partire dalla propria cultura. Così per altro verso permettere a chi è emigrato l’apprendimento della nuova lingua - lingua, letteralmente, d’arrivo - appartiene ai doveri di riconoscimento, di ospitalità. E la lingua, se non si frappongono limiti, è di per sé ospitale, si offre a coloro che abitano il suo territorio, le sue città. Per questo è importante favorire iniziative che permettano a chi emigra allo stesso tempo di apprendere la nuova lingua e di conservare, accanto alla nuova lingua, la sua propria lingua. A partire da queste due situazioni si può istituire il dialogo, la diversità si può rivelare ricchezza, le storie si possono confrontare. Anche sul piano linguistico l’emigrazione è una risorsa per il paese che ospita. Proprio perché nei confronti di una lingua, anche della propria lingua, siamo tutti, sempre, in stato di migrazione – dalla lingua della madre alla lingua nazionale, dai dialetti alla lingua di comunicazione alla lingua della scrittura - siamo in grado di capire come la lingua dei migranti possa essere un teatro di conflitti, ma anche di relazioni tra una lingua di provenienza e una lingua d’arrivo: è da qui che muove un passaggio verso la nuova lingua che sia in grado allo stesso tempo di preservare la lingua d’origine.

Pensiamo a come gli scrittori migranti possono contribuire a rinnovare, modificare, rimodulare la lingua del paese d’arrivo. Possono introdurre, certo, in un arco temporale esteso, nuovi ritmi, modulazioni diverse del dire, persino una nuova apertura lessicale, un sommovimento dell’impalcatura sintattica, nuovi repertori metaforici ed espressivi. Possono portare, per così dire, la lontananza, tutte le sue figure, nella nuova lingua. Un’immensa geografia poetica e umana può trovare un suo respiro nella lingua ospitante. Da una parte colui che scrive vuole come preservare della propria lingua l’incanto delle radici, o il dolore della memoria, dall’altra vuole portare tutto questo patrimonio nella nuova lingua. Tutto il Novecento è segnato da queste trasmigrazioni di lingue, e dunque di mondi : da Nabokov a Celan, da Singer a Rushdie, da Conrad a Gombrowitz.

Stare tra le lingue: la traduzione.
Dire della traduzione, anche solo per l’aspetto che qui a noi interessa, significa mostrare come la traduzione è paradigma, ma anche esperienza viva, del rapporto con l’altro. Figura antropologia di una relazione viva. C’è, dicevo, un’ospitalità della lingua: la figura, mediterranea e nomade, dell’ospitalità, ci dice di uno stesso spazio-tempo in cui colui che ospita e colui che è ospitato partecipano al reciproco riconoscimento. Tradurre è trasmutare una lingua in un’altra lingua, ma lasciando l’altro nella sua identità, di stile, di timbro, di riconoscibilità, di cultura. E c’è una doppia forma di ospitalità messa in atto da parte di chi traduce: ospitalità della lingua i-n cui si traduce (tradizione, memoria, codici e forme) e ospitalità della lingua propria del traduttore. Si traduce sempre in una propria, intima, singolare, lingua. Inoltre tradurre è interpretare. E’ mettere in relazione due lingue, due culture. E’ stare sul confine, e da lì interrogare la propria lingua, e allo stesso tempo l’altra lingua. La pluralità delle lingue è pluralità delle forme con cui l’esperienza degli individui pulsa nella parola, nel suo suono, nel suo senso, nel suo ritmo. La traduzione mostra questa pluralità come vivente e trasforma la parzialità, la singolarità, la diversità di una lingua in un’occasione per il balzo verso un’altra lingua. Restituisce, nel tessuto della nuova lingua, quello che l’altra lingua ha donato. Fa rinascere quel dono nella nuova lingua. Solo l’accettazione della pluralità linguistica, della polifonia di storie, modi linguistici, culture permette la traduzione. E l’educazione linguistica in più direzioni, se salva e preserva questa pluralità, favorisce la diffusione della traduzione, la sua pratica. Al contrario di quel che potrebbe apparire superficialmente, non si traduce perché non si conoscono le lingue straniere, ma solo per il fatto che la conoscenza di queste lingue da parte di molti rende diffusa la frequentazione delle letterature e dei saperi appartenenti a lingue e culture diverse dalla propria e di conseguenza fa apparire necessaria l’estensione ad altri di quelle conoscenze. Si traduce non per compensare il monolinguismo, ma a partire dall’esperienza di conoscenza dell’altra lingua.

Postilla
Sia la risoluzione europea sul multilinguismo sia il rapporto del Gruppo presieduto da Amin Maaloof e istituito dall’Unione europea rappresentano un momento di grande consapevolezza e di concreta proposta che potrebbe dare alle tante questioni –d’ordine politico e didattico- un orientamento ma anche un ventaglio di suggerimenti pratici. Si tratterebbe di far circolare quei documenti, farli conoscere, discutere. Naturalmente la prima cosa che si nota è il divario enorme tra quella consapevolezza, problematica, aperta, interrogativa e anche concreta, e la situazione italiana, che appare, anche su questo piano, davvero poco europea. Il rapporto Maaloof è centrato proprio sulla difesa della diversità linguistica –uno dei diritti fondamentali dell’uomo- e sulla promozione del multilinguismo, riconosciuto come una grande risorsa culturale e anche economica di un paese. La proposta di favorire l’apprendimento di una lingua personale adottiva, accanto all’apprendimento di una lingua di comunicazione internazionale, è una proposta che muove dall’idea che il rapporto con una lingua straniera può essere, talvolta, e in molti casi lo è stato e lo è, un rapporto di relazione profonda con il paese e la cultura di quella lingua, una passione per la lingua altra –prossima, spesso, o anche se lontana, prossima per affezione ed elezione- che è in grado di dislocare il soggetto, con la mente e con il cuore, nella storia e sapere e costume e letteratura dell’altra lingua. E’ proprio questa gratuità, per così dire –anche se didatticamente si tratterebbe di offrire quadri di concreta praticabilità a questa passione - che può garantire un rapporto non esteriore, ma motivato, sempre estensibile, in costante divenire, con l’altra lingua. Inoltre liberare l’altra lingua dall’ombra di una strumentalità comunicativa, significa restituirle la ricchezza della sua storia e le mille nuances delle sue espressioni culturali. Questo, naturalmente, potrebbe accadere anche con l’inglese, non considerato come lingua puramente comunicativa, ma vissuto nella sua straordinaria ricchezza letteraria. Se la pluralità di voci e di storie e di stili e di vicissitudini umane e di rappresentazioni e narrazioni e invenzioni che riusciamo a cogliere nel suono e nelle forme e nel sistema della lingua materna, riuscissimo, a livello diffuso e di educazione linguistica nazionale, a coglierlo anche in un’altra lingua, sarebbe assicurato non solo il dialogo, ma quel saper stare tra le lingue, saper stare sul confine che è senso dell’ascolto, mobilità dello sguardo, attenzione all’altro, comprensione dell’altro. E potremmo non rifugiarci più in quella debole tolleranza dell’altro che per essere tale, cioè per tollerare, ha bisogno di imprigionare l’altro nella sua diversità.