L’azzardo della verità

Su L’uomo che si guarda la mano di Marco Pedone

di Antonio Errico

Marco Pedone ha origini salentine e vive a Roma da sempre. Classe ’58. Insegna nelle superiori. Ha vinto il premio Montale nel ’92. Ha scritto poesie, saggi, un romanzo pubblicato nel 2004 con Fernandel e intitolato “Gri. Galvanoplastiche Ramature Imola”, un altro uscito da pochi giorni con le Edizioni Creativa: “ L’uomo che si guarda la mano”.
Marco Pedone è un narratore straordinario: nel senso vero e proprio di fuori dall’ordinario, perché di ordinario non ha nulla. La sua è una scrittura che mette insieme l’istinto e il lavoro di cesello, una tessitura stilistica personalissima e la migliore tradizione europea e americana del Novecento, il richiamo per l’azzardo della metafora e uno scrupolosissimo rigore semantico, ironia corrosiva e riflessione proveniente da un’ansia filosofica, sperimentazione stilistica e accuratezza filologica. Fuori dall’ordinario è la sua capacità di costruire personaggi. I suoi libri sono fatti esclusivamente di personaggi; tutto il resto è secondario: luoghi, vicende, trame, intrecci, riferimenti, contesti, tutto secondario. Non per lui che ,anzi, cura meticolosamente trama ed intreccio in particolare, ma per il lettore che si sente attratto dai personaggi coinvolgenti e vitali, che si sente preso per la giacchetta, per il bavero, e portato dove essi lo vogliono portare.
Personaggi dalla comicità amara, tra Chaplin e Keaton, che sono la controfigura di tutti noi, gente della strada che tiene i piedi per terra e qualche scheletro di sogno spolpato dall’esistenza vorace di ogni giorno, che parlano un linguaggio vero eppure paradossale, derivato di una sapiente e coltissima mistura plurilinguistica di matrice gaddiana, impastato con riferimenti colti e scaglie dialettali.
Ecco, dunque. Il linguaggio costituisce l’altro elemento connotante di questo e dell’altro romanzo di Pedone. Attento, sorvegliato, lavorato nei più minuscoli particolari sintattici e lessicali, con una studiata disarmonia dei giri di frase che traducono l’imprevedibilità dei fatti, lo stupore del consueto, la drammaticità della farsa, il duello all’ultimo sangue tra la verità e la menzogna, il corto circuito provocato dal contatto tra l’apparenza delle cose e la loro nascosta, insospettata, sostanza.
E’ un linguaggio teso, mai indugiante in descrizioni o in situazioni di colore ma sempre pronto a cogliere la parte sottostante degli eventi, talvolta il lato oscuro dei comportamenti.
Marco Pedone scrive collocandosi dentro le sue scene, nell’esistenza dei personaggi, attraversa i luoghi che descrive. Narratore onnisciente, potrei dire, riprendendo il termine dalla narratologia. Ma la sua è un’onniscienza particolare, parodistica, talvolta beffarda, perché solo così può essere un’onniscienza postnovecentesca: autoironica, palesemente falsa. In realtà il soggetto che narra nei romanzi di Pedone sa perfettamente che non conosce niente e che non conoscerà mai niente, non solo degli altri ma anche di sé stesso. Quanto più il narratore cerca di sbrogliare le vicende tanto più complica il garbuglio, infittisce la trama, stringe l’intreccio. La narrazione procede per incastri, sovrapposizioni, intersecazioni. Anche la verità più evidente diventa quasi inverosimile, la realtà si deforma, le creature prendono una fisionomia esasperata che confonde i tratti della loro umanità sofferente, di una sensibilità non di rado delicata, profonda: di particolare significanza , a questo proposito, risulta la figura di Ma’, la più bella e la più tenera del romanzo.
La deformazione dei personaggi è un metodo di conoscenza. In questo modo Pedone squarta la forma, rovescia l’apparenza, fino ad arrivare alla radice psicologica, al movente – anche inconscio – delle loro azioni e dei loro comportamenti, fino a scoprirne i sentimenti inconfessati, quelli più rancorosi e quelli più innocenti. Lo fa con quella delicatezza, quella passione, quella partecipazione, con l’amore o con la pietà che per i loro personaggi provano gli scrittore straordinari. Come Marco Pedone.