Enzo Sozzo

Nell’arte e nella vita

Maurizio Nocera

Ancora prima di morire, quando sul volto di Enzo Sozzo erano evidenti i segni dolorosi di un brutto tiro giocatogli dalla fatica del vivere; quando attorno a lui si stringevano solo gli amici e i compagni conosciuti nella bufera resistenziale e con loro l'artista partigiano passava tristi mattini invernali tra l'antica cella del convento sanleonardiano di via coniger uno (divenuta poi studio-bottega tuttofare) e il “Caffé Paisiello", quando la città barocca se ne moriva nonostante i superni appelli di monsignor Mincuzzi e quando ormai stanche s’adagiavano lentamente le sue carrozzelle sulla tela, insomma, quando sembrava ormai che i giochi fossero tutti fatti, fu naturale chiedergli: ed ora, caro Enzo, che cosa c’è ancora da fare?

La sua risposta fu quella di sempre: «Cerchiamo di dare dignità a questa nostra storia di quarant'anni e passa. Mettere un po' di nero su di una pagina salentina ancora bianca, per raccontare imprese significative, compiute dai figli migliori di questa terra, esempi rimasti finora sconosciuti ai più, lasciati fuori dai testi scolastici istituzionali».

Insomma, dovevamo ancora tentare di aggirare un silenzio assordante istituzionalizzato più per ignoranza che per cretinismo parolaio.

Allora, quando era difficile perfino respirare l’aria barocca, sentimmo forte il richiamo della militanza rinserrata in noi e umilmente ci spingemmo a dare concretezza a quella ormai annosa richiesta di Enzo Sozzo, nostro presidente all’Anpi provinciale di Lecce.

Nacque così il libretto “Il Salento per la libertà e la pace” (Lecce, Anpi 1984), da me curato col sostegno di una sofferta necessità di Enzo Sozzo e dei partigiani di Lecce, di alcune loro profonde radici di nostalgia. A guardarlo oggi, quell’opuscolo, non si fa fatica ad accorgersi di non poche lacune, di qualche svista, di ingenue frettolosità redazionali. Però, un merito forse ce l'ha ancora. Fu quello il primo, sia pure modesto, tentativo di dare memoria ai nostri poveri martiri salentini che, come spesso diceva Enzo Sozzo, s’immolarono per la libertà e la democrazia del popolo italiano nella lotta contro il fascismo e il nazismo.

In “Il Salento per la libertà e la pace” scrisse una pagina memorabile anche il presidente nazionale Arrigo Boldrini, il leggendario comandante Bulow che liberò Ravenna dai nazifascisti ancora prima dell'arrivo degli alleati anglo-americani. Purtroppo, proprio quest’anno 2008, anche lui se ne andato via per sempre da questo mondo, raggiungendo forse il suo amico compagno Enzo Sozzo in un mondo altro, forse di verdi praterie; se ne sono andati via per sempre anche altri grandi amici e compagni di Enzo, tra i quali i segretari nazionali dell’Anpi Giulio Mazzon e Mauro Galleni, poi altri ancora.

Nell’opuscolo ci sono le firme di Salvatore Sicuro, attuale presidente dell’Anpi di Lecce, che combatté nell’ex Jugoslavia, e c’è poi la firma dello stesso Enzo Sozzo, partigiano in Liguria, che qui a Lecce, per più di quarant'anni ai fece promotore di iniziative di massa che risvegliarono la memoria alla nostra gente ricordandole il contributo di sangue versato dai salentini per liberare l’Italia dalla tirannia. Tra le migliaia di caduti in tutto il paese, centinaia furono i nostri conterranei caduti sotto il vile fuoco nazifascista e repubblichino.

Qualche tempo dopo, era il 1990, pubblicammo una sorta di catalogo, ma non lo era nel senso classico della storia dell’arte; si trattò piuttosto di uno zibaldone dal titolo “Enzo Sozzo. L’Uomo, l’Opera”, nel quale firmarono loro testi molti amici e compagni dell’artista partigiano, fra cui tanti salentini e altri del resto d’Italia. Tra i nostri conterranei come non ricordare Ennio Bonea, Carlo Caggia, Toti Carpentieri, Renzo D’Andrea, Giorgio De Giuseppe, Rina Durante, Salvatore Fitto, Francesco Lala, don Franco Lupo, Antonio Maglio, Armida Marasco, Mario Marti, l’arcivescovo Michele Mincuzzi, Mario Moscardino, Enzo Panareo, Mario Povero, Carlo Prato, Giacinto Urso, Donato Valli, Tonio Ventura, altri ancora. E tra quelli del resto d’Italia, come non ricordare Alfonso Bartolini, Arrigo Boldrini, Roberto Bonfiglioli, Aldo Ducci, Tomo Griguerevic (jugoslavo), Pietro Marino, Giulio Mazzon, Sergio Molesi, Nino Palumbo, Michele Perfetti, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, Veljko Sakotic (jugoslavo), Remo Scappini, Roberto Vatteroni, Dusan Vujanovic (jugoslavo).

In questo zibaldone lo stesso Enzo Sozzo di sé scrisse: «Quanto è stato riportato in questo “catalogo” è soltanto una sintesi di tanti fatti della mia vita. […] Chiedo scusa a tutti i miei amici se in tutti questi anni mi hanno sopportato, però, ricordo loro che assieme siamo riusciti a gettare qui a Lecce le prime fondamenta della libertà e della democrazia. i nostri figli sicuramente continueranno la nostra opera per la pace nel mondo». Poi cita quegli amici e quei compagni che gli furono sempre vicini, in primo luogo il direttivo dell’Anpi di Lecce, fra cui Toto Sicuro, Toto Fabrizio, Mauro Alfieri, Paolo Palma, Franco Scarano, Umberto Greco, Giacinto Saracino, Guido Ferramosca, Algerio Russo, Ada Donno, Antonio Massari, quest’ultimo firmò pure la copertina del libro, un suo splendido ritratto alla sanguigna dell’artista partigiano.

Sia pure in modo sommario, in questo libro Enzo Sozzo indica quali sono stati i suoi percorsi di vita, quelli politici, sociali, di esponente nazionale e provinciale della Resistenza italiana, la sua vita d’artista, di semplice ed onesto uomo che tutte le mattine riesciva a mettersi al lavoro solo dopo aver salutato affabilmente attraversandola la sua adorata città, Lecce.

Poi Enzo, la mattina del 6 ottobre 1993, all’età di 76 anni, se ne andò via per sempre da questo mondo, lasciandoci nel dolore e nel disorientamento. Appena due dopo, nel 1995, grazie alla sollecitudine dell’allora sindaco di Lecce, Stefano Salvemini, lo ricordammo con una nuova iniziativa a cura di chi qui scrive e del figlio Carlo. Pubblicammo un suo inedito, dal titolo “La valigia. Vita vissuta di pittore, di partigiano, di comunista” (Lecce, Conte 1995). Scrisse queste pagine autobiografiche a partire dagli anni 1983-84, quando aveva circa 65-66 anni. Nella prefazione al libro scrivemmo: «L’idea di Enzo Sozzo era di scrivere le sue memorie non per una effimera autogratificazione – in quanto di gratificazioni nella vita ne aveva avute fin troppe – ma esclusivamente perché spinto, ancora una volta, da quel primitivo istinto di generosità verso tutti che lo aveva caratterizzato: in primo luogo verso la sua famiglia, quindi verso l’Anpi, poi verso il Partito comunista».

Enzo Sozzo fu un uomo di grandi ideali: di libertà, di democrazia, di uguaglianza, di fraternità, di giustizia sociale; ideali che egli non tradì mai e che per lui sono enucleati nella militanza nella resistenza e nel partito comunista.

Nel libro La valigia ha scritto: «Nella mia famiglia ci sono stati partigiani e partigiane: mia moglie Antonietta, mia cognata Carla, una zia di mia moglie, mio cognato Aldo, commissario di brigata, Medardo, fratello germano di Antonietta, trucidato dalla Ss (gli bucarono gli occhi, ma egli non parlò, non disse dove si trovavano i suoi compagni di lotta), mio fratello Andrea, capitano dell’esercito, medaglia d’argento alla memoria perché caduto alle Bocche di Cattaro in Jugoslavia. Posso affermare che la mia famiglia ha dato alla patria tutto il contributo possibile per la causa della libertà. Occorrerebbe un libro intero per narrare i fatti, gli episodi, che hanno caratterizzato le vite di questi miei familiari partigiani, ma qui mi limito solo a citarli e credo sia un dovere da parte mia dire che tutti costoro hanno creduto fermamente nella causa [comunismo] per la quale hanno lottato» (p. 97).

Un altro grande ideale di Enzo Sozzo fu l’arte. Nel catalogo “Enzo Sozzo. L’uomo, l’opera”, ha scritto: «Avevo frequentato la Scuola di disegno alla “Maccagnani”, nella Società Operaia di Lecce. La sera, tornando a casa dopo una riunione, mi sedevo davanti al cavalletto e dipingevo per ore e ore, a volte anche per tutta la notte. In quel periodo, chi mi seguiva, chi mi incoraggiava era mio padre, che di mattino presto veniva a casa mia a prendere il caffè e, guardando i miei quadri prodotti durante la notte, diceva: “ma a che servono questi lavori se la gente non li vede e non sa niente di te?” Dopo aver sentito per anni questa frase, mi decisi allora ad organizzare una prima mostra. La tenni al Caffè “Santachiara” in via Trinchese. […] Ricordo che quella sera mi assentai dalla mostra per qualche minuto in compagnia di mio cognato, dopo che c’era stata la presentazione di Rina Durante. […] Durante la mia assenza, in quei pochi minuti, Vittorio Bodini visitò la mostra. Mi lasciò un biglietto che conservo ancora in mezzo a quintali di carte, giornali, fotografie. In quel foglio Vittorio scrisse poche righe che ricordo ancora: “Bene Enzo, dipingendo la tua casa hai narrato come vivi, dove lavori. Questa è la strada su cui devi continuare: dipingere la nostra terra, la nostra gente. Ti abbraccio, Vittorio» (pp. 134-135.

È così è stato. Enzo Sozzo ha dipinto la sua Lecce, l'antico e il moderno Barocco, i palazzi con i loro balconi fioriti di rossi gerani, le chiese (un occhio particolare a Santa Croce), le corti, le campagne salentine, le marine tristi ed azzurre che ti riportano ad epoche di nostalgia, ad epoche di tenerezze d'incanto, a ricordi ancestrali.

Chi ha conosciuto bene Enzo Sozzo sa quanto egli era persona onesta, corretta, operosa e dedida interamente agli altri. Grande la sua generosità, straordinario il suo altruismo. Per questo è difficile oggi dimenticarlo. Passeranno gli anni e i decenni, di molti di noi non resterà traccia, ma di Enzo Sozzo resterà sempre viva la memoria come di un grande Leccese che visse per fare grande la sua città. Bene ha fatto Giacinto Urso, suo grande amico ed estimatore, a ricordarlo recentemente con queste parole: «Sono trascorsi quindici anni dalla morte di Enzo Sozzo, che resta in me più vivo di prima. È nei miei occhi con la sua sanguigna possanza, ornato da un folto baffo, che si univa alle lunghe "basette"per poi esplodere in una bellissima chioma di gioioso "bohemien". A tutti offriva un cuore di bimbo, divenuto adulto, ricco di generosità. Scrosciante la sua risata. Non conosceva la collera anche se sembrava irruente nelle sue richieste. Rispettoso in ogni occasione verso tutti, compresi i suoi dichiarati avversari politici. Amava immensamente Lecce con sovrabbondante spirito di leccesità, frugando ed esaltando le più minute bellezze della città, della gente e delle tradizioni. Sentiva imperiosa la rimembranza del passato, che - soprattutto in certe ricorrenze - sentiva di dovere onorare e di convincere gli altri a rendere onore dovuto. Tutto ciò e tant'altro sapeva trasferire nella vita di ogni giorno e nelle mille e mille tele, ravvivate dal suo pennello e da una artistica estrosità, rivolta a quanto lo circondava. Panorami, marine, facciate di Chiese, fiori, cavalli stecchiti, trainanti le ultime "botticelle" e tant'altro. I suoi colori venivano dal vulcano della sua anima. […] Possedeva la fede politica di comunista della prima ora senza scadere in maledizioni e invettive nel convincimento che il sangue dei vinti e dei vincitori è sempre sangue di morte, di lutti, lagrime e di comuni tragedie. Quindi, il suo ricordo non può svanire».