Antonio Errico, Stralune, Manni










Osvaldo Licini, Luna

Torniamo su “Stralune”, come sapete il nostro giornale (su il Paese nuovo del 10 gennaio 2009) non ama il pensiero unico, al contrario è appassionato di opinioni e di visioni, gode di una rete di collaboratori tutti da ascrivere a quella schiera di lettori forti che fanno lo zoccolo duro ad un mercato del libro sempre più traballante. Torniamo allora, dopo la recensione già proposta da Elisabetta Liguori (il 6 gennaio scorso) sul nuovo romanzo di Antonio Errico, maestro di scritture che ci hanno 'allevato' a quella musicalità che sapientemente mischia il narrare alla poesia.

E’ un tempo il nostro che (al contrario di quanto pare accadere nel Salento) chiama al "realismo"! Iperealismo anzi. La cronaca, la truce quotidianeità, l'ordito su cui tessere narrazioni, ahinoi sempre meno “fiction”. C’è come il bisogno di sentire l’odore di ciò che già si conosce, che si vive senza digerire, per accostarsi ad un libro, come se ad uno scrittore sia dato il compito di confermare, di indagare, ciò che è già ferita per poter dire che tale è! Il “danno” dobbiamo ritrovarlo tra le righe di un libro per indignarci! Così ci crediamo! Partecipiamo, solidarizziamo, ci facciamo lucida e linda la coscienza civica. Il caso Saviano è eclatante e significativo.

Poi ci sono filoni di ricerca che ristabiliscono l’equilibrio e la ricerca mostra tutto il suo potere suggestionale. E qui troviamo lune e stralune e cacce e favolerie...

(m.m.)


Vorrei che tu fossi qui

Vito Antonio Conte


“Remember when you were young, you shone like the sun...”, avete presente quest'incipit?, ricordate le note che accompagnano queste parole?, rammentate i Pink Floyd?, certo che sì! Così inizia uno dei loro più bei lavori, forse il più bello, anzi senza forse, e di più: il migliore in assoluto. Per me, s'intende. Sicuramente quello che amo senza fine! Il pezzo è “Shine On You Crazy Diamond”; l'album, un vecchio vinile del 1975, è “Wish You Were Here” che tradurre “Vorrei Che Tu Fossi Qui” è come dire tutto e come non dire niente. Come ripete, usando tutti i vocaboli di questa Terra (metteteci pure il prefisso Stra, se volete, ché diventi Straterra), in Stralune, Antonio Errico. In quel vecchio disco, sulla copertina, c'è una strada, una strada larga, uno stradone, una strada di magazzini e depositi, in un'imprecisata periferia, una strada deserta, così deserta che mai ne ho vista una più piena, una strada morta che mai ne ho vista una più viva, completamente deserta, con capannoni a destra e a sinistra, in perfetto stato, in perfetto ordine, in perfetto abbandono, tanto chiusi da sembrare aperti e popolati. Nessun veicolo, neanche una carta per terra, alcuna traccia di vita nell'aria e un brulicare denso di silenzio. Sullo sfondo un cielo che potrebbe essere primavera riflette ombre a mezzogiorno sull'asfalto consunto e lindo. In primo piano, subito dopo un tombino (a due bocche: una per l'inferno e l'altra per il paradiso, ché l'ingresso rimane unico...), due uomini (in abito e cravatta) si stringono la mano. Che ci fanno lì?, cosa ci fanno in un posto così? Ci sarebbe da chiedersi questo e altro se l'immagine fosse sottesa a una qualche realtà o se una qualunque realtà fosse stata fermata in quell'immagine. “Welcome my son, welcome to the machine where have you been?” (scriveva Waters). Invece, quell'immagine è il ritratto di un'assenza, l'assenza di un uomo, quello a destra, l'uomo che va in fiamme, quello senza volto, che brucia intanto che si leva un vento che soffia forte e anima un altro luogo, facendo rotolare via tutto quel che c'è. Tutto quel che non c'è.

Ascolto questa musica contenuta in quello che un tempo si chiamava LP e leggo Stralune, l'ultima scrittura amara di Antonio Errico. Della quale già è stato detto e, su questo giornale, bene. Della quale tanto ci sarebbe da dire, ancora. Mai così intrisa di amarezza la scrittura di Errico. Mai così melodiosamente dolce. Mai così profonda. Mai così sospesa. Mai così sua. “Come on in here, dear boy, have a cigar You're gonna go far, fly high You're never gonna die, you're gonna make it if you try; they're gonna love you Well l've always had a deep respect and I mean that most sincerely The band is just fantastic...”, ascolto da giorni, da giorni leggo, da giorni scrivo. Faccio tutto questo insieme. E altro. La mia matita si è fermata su diversi righi, ha annotato parole, ne ha cerchiate altre: scerabbà, reliquario, ambascia, calandra, lumera, megàna, scursone... E le reiterazioni, mai fine a se stesse. Che diventano voce. E le allitterazioni, mai mero esercizio poetico. Che fanno vibrare di suono le parole. E gli anacoluti, essenziali per dire quel che non si può. Che danno ritmo. E ti vedo Antonio, ti vedo come non t'ho mai visto, ti vedo ragazzino, ti vedo come non t'ho conosciuto, mentre ti tuffi dalla punta più alta a strapiombo sul mare della montagna spaccata e “So, so you think you can tell heaven from hell, blue skies from pain Can you tell a green field from a cold steel rail? A smile from a veil, Do you think you can tell?” e vedo una vecchia tavola di un fumetto di guerra, ché amo i fumetti, tutti i fumetti, tranne quelli di guerra, e c'era un nippo perduto nella battaglia infinita ormai finita da anni mai veramente finita. E vedo la madre... e una donna... un'altra donna... il padre e, sempre, quell'ombra: una dannata bellissima ombra! E ricordo anch'io quella neve, forse un'altra o soltanto una fotografia: c'era la neve quella primavera, conservo quella neve in una fotografia. C'è la neve sui fichi d'india in quella fotografia... E ne sottrassi parole e le mandai lontano, dove non c'era più l'ombra, dove non c'era il mare, dove non c'era tempesta, dove per un amore senza misura sarei andato anch'io, dov'era un'altra casa, quella ch'era l'unica possibile, quella solo quella, quella soltanto, solo quella a quell'ora, nell'unica ora che ci è data, “Come on you boy-child, you winner and loser, Come on you miner for truth and delusion, and shine!”. Come dopo un'infinita spossatezza, tanto grande che per farla (almeno) capire (se non comprendere) è necessario usare per dodici volte la parola “stanco”, per dire tutta una notte, per far entrare chi legge in quella notte, per far toccare ogni istante di quella notte-vita-morte, per assaporare meglio la prima luce che non è ancora luce, ma è proprio lucire di primordio, carezza di preghiera, padre nostro che ho letto ai miei figli che, nel più bel silenzio che c'è stato con loro, hanno toccato, lo so, l'ho percepito dalla compostezza, gliel'ho rubato dagli sguardi, la mia voce tremula, ch'è stata grazie alla tua. E a quella di tutti quelli che hai raccontato, che non possono più raccontare e che ti hanno fatto raccontare. Ché questo è (anche) il tuo destino. E che sia un tradimento o una fedeltà lo sa davvero chi avrà un'altra vita. Non io, né tu e nessuno di voi. Ché questa, altrimenti, non avrebbe lo stesso senso. O non avrebbe affatto senso. Quel senso che, volendo, si può cambiare strada facendo. A pagina 150 della mia copia del libro ho annotato: 8.1.09 e, poi, sì, adesso posso andare. Per capire dovete leggere. Non la mia copia. Quella che comprerete: ché questo è un libro da tenere.