Ocra di Lino Manca

di Vito Antonio Conte

Nell'invisibile -agli occhi dei più- confine tra la primavera e l'estate di quest'anno, per una serie di congetture -per me- irripetibili, ho incontrato Lino Manca. Non intendo la persona che conoscevo e che si era un po' perduta nella mia memoria d'adolescente. Di quell'uomo è intatta l'immagine, quella fisica che riflette indubbie virtù interiori: la serietà (mai confusa con la seriosità) mischiata a una strana dolcezza: quella del suo viso un po' altero e -a guardarlo bene- un po' stralunato, sognante. Quello che credo di aver conosciuto quest'anno è un altro uomo o meglio un uomo altro. È per un appuntamento culturale in nuce che ci siamo visti e di arte si è parlato in quell'occasione. Di libri, di poesia, di autori salentini e, in particolare, di un'aria nuova che girava per il paese, San Pietro in Lama, ch'è il suo, ma anche il mio. Poi, qualche tempo dopo, con un'espressione quasi da reo che ammette la sua colpa, mi confessò che anche lui scriveva, sì, amava la poesia e verseggiava la vita secondo la sua intima filosofia, da tempo scriveva, aveva riempito fogli e quaderni che custodiva nel cassetto dell'indecifrabile, dove la memoria si confonde con un'idea e col desiderio, dove sedimentano delusioni e dolori, dove s'allenano e riposano sogni e speranze, dove si sa cosa c'è ma non è ancora scritto cosa diventerà quel che c'è.

Me lo disse con pudore, con un pudore quasi bambino e, nel contempo, con quel pudore di chi, a lungo, ha riflettuto sulla propria scrittura e se l'è fatta bastare aprendo -all'occorrenza- quel cassetto. Me lo confidò con la consapevolezza che il personale percorso era giunto a un bivio e non poteva più proseguire per la strada nota, meno rischiosa, quella ignorata dagli altri, dove si celano sensi di inadeguatezza e paure, dove pure (ai margini) crescono essenze e fiori necessari: essenze per lenire le ferite, fiori per aggiungere bellezza a ricordi belli ma sfioriti. Doveva, invece, muovere i suoi passi per la via a lui sconosciuta, mettendo in discussione quel mondo che ostinatamente cercava di tenere il più possibile vicino al suo intimo ordine, rischiando l'immagine fatta di tante parvenze con quell'essere che pulsava ormai irresistibilmente: l'altro da sé, quel Lino altro che la scrittura aveva -gradualmente- disvelato al suo stesso autore. E il rischio, a quel punto, era pubblicare e, mi rivelò, non so se quel che scrivo potrà interessare a qualcuno... e, sciolto il disagio che parlare dell'argomento gli procurava, restò a ascoltare una mia improbabile risposta: gli dissi (ripetendomi) che per me pubblicare era stata un'avventura nata nell'esatto momento in cui avevo avvertito forte il bisogno di rendere agli altri quel che gli altri -spesso inconsapevolmente- mi avevano donato... E adesso è come se rivedessi quel momento: Lino si rilassa e, con poche parole, ché con le parole (soprattutto) ci vuole misura e lui lo sa bene, mi dice (o, forse, non me lo dice, ma traspare dal suono del suo dire) che sente ch'è giunto il tempo dei suoi versi... e comprendo, dall'espressione profonda dei suoi occhi, ch'è stato da sempre molto severo con se stesso... Va bene, gli dico, parliamone ancora quando vorrai... Adesso Lino Manca parla attraverso “Ocra”, raccolta di poesie e altro, pubblicata -in questo mese- per i tipi di Lupo Editore (pagine 213, € 13,00), in cui al sottotitolo, “L'alfabeto del compiersi” (che evoca un cammino), fa da contraltare la copertina, l'opera “Ulivo” del grande pittore Vincenzo Ciardo, un inchiostro acquerellato, simbolo dell'immanenza dell'imperitura natura nel fluttuante pensiero, capace di negare oggi quel che aveva valore ieri, senza motivazioni, ma per il solo fatto di seguire l'apparire, sacrificando ogni idea di essere.

Quell'idea che, invece, Lino Manca coltiva costantemente e della quale reiteratamente scrive, forse troppo spesso, ma ogni volta mettendo in gioco se stesso, una volta ancora cercando di comprendere l'imponderabile rapporto tra il tempo che non c'è più e quel che -spesso acriticamente- ha preso il suo posto, come di legge imposta senza alcuna connessione con la realtà, ma perché qualcuno lo ha deciso senza condivisione di sorta. Una volta ancora a cercare di capire, a fronte di ciò, quale potenza risiede nell'individuo. Intanto, guardarsi dentro, dialogare con l'altro da sé, non fermarsi alla stupida coerenza dell'immobilità, sembrano suggerire le liriche di Lino Manca, e poi trattenere il senso delle cose, conservare il respiro di chi, come gli ulivi, continua a vivere e farci vivere la millenarietà della storia, attualizzandola a ogni stagione. Non un inutile rituale, ma un ripetere antichi gesti nella lentezza che fa vivere un viso, una voce, un incedere, un sorriso, un canto, un modo di stare su questa terra, piuttosto che un inetto correre. Perché “nell'ocra c'è una segreta attesa” e cullare il tempo significa ascoltare chi “con gli occhi ci ripete ancora che diventa cieco chi non guarda l'altro e diventa sordo chi non sente se stesso nei giorni acerbi”, intanto che “brontola il mare con voce da nero la nenia della vita da stenti” e “nonna Rosa continua a ridere in re”, ballando nella luce lunare che “indovina dal profumo dei suoi artifizi l'identità degli uomini che hanno perduto il loro sé”. Perdere se stessi è il male che affligge l'uomo d'oggi e Lino Manca conosce questo rischio e cerca di evitarlo “sfidando l'evanescenza” dell'effimero, anche se costa emarginazione “quando senti impazzire i grilli nella testa” e l'impresa è immane ché “ci vorrebbe un pegaso per levare in alto la pazienza disarcionando ogni dio che si monta la testa”, ci vorrebbe “una pace che trascende il racconto” e guarda oltre l'orizzonte di “gechi imbronciati nell'ombra che annusano l'ennesima notte di attese” finché “ci riprova la primavera a muovere le sue parabole di note” e il desiderio “bacia la lacrima che ingioiella le sue labbra di melagrana” perché ogni caduta e ogni volo e ogni andare hanno significato, per ciascuno, se si sa che “oltre il nido nelle crepe del tufo c'è la tua favola che sfarfalla nelle trasparenze”. Lino Manca regala il suo mondo e il suo stare nel mondo, ché mettere ulivi e gechi in versi non è noiosa descrizione di un Salento da cartolina che annichilisce altre realtà e oscura problemi dietro un bello spot pubblicitario, non è mercificare una terra di rughe, gioie e dolori profondi, e neppure mero esercizio poetico, scrittura fine a se stessa, ma coscienza “che qui si ritrova il singolo a specchiare sui muri la sua ombra l'altro di sé e se qualche parola vola è soltanto l'esistere che si accartoccia nel suo alfabeto minimo”. È esaltazione di un'etica che non conosce il passare del tempo, ch'è distante da stucchevoli mode di un giorno, è riflessione sul cambiamento cogliendone le positività ed è quel che consente ancora e nonostante tutto di vedere “nella chioma del noce una donna la più bella del paese che schiaccia i gusci per scoprire nelle trine l'enigma dei gherigli”. Un mondo ch'è armonia e memoria, riassunto in poche mirabili righe: “non scosterò le tue lunghissime ciglia per non leggere nei tuoi occhi che vuoi tagliare l'oggi da ieri e il domani da qui mentre lasci seccare sull'asfalto la scorza di ogni serpente che oltrepassa i confini” (Il racconto del sole). Lino Manca sembra voler attrarre attenzione su quel che quotidianamente sfugge perché l'esistenza è una e lasciarsi attraversare dal tempo, specialmente se quel tempo non t'appartiene, non è vivere; perché farsi rubare il proprio tempo è da idioti; perché obbedire al tempo che qualcun altro ha dettato è da coglioni; perché “non è la prima volta che qualcuno si siede la sera per indovinare il domani e si addormenta per sempre con il viso nell'incavo di una mano... ogni addio è andare con le mani aperte a raccogliere un geranio fuori stagione che ammicca oltre la finestra”. Ho estrapolato, forse maldestramente, pochi versi nelle parole che riempiono le oltre duecento pagine di questo libro d'esordio di Lino Manca, ma sono versi che ho amato immediatamente... altri ce ne sono. Se un appunto posso fare alla scrittura di Lino Manca è che dovrebbe avere la forza di sottrarre parole alle parole: le poesie ne guadagnerebbero in potenza (...), ma questo è soltanto un mio pensiero e fa parte del mio sentire, ascoltare, leggere e fare versi. Forse domani sarà... chiaro, come nella poesia “Craj”, non a caso una delle più brevi composizioni e della quale terrei solo questi righi: “tu non sai / come sono dolci / le cosce bianche della luna / quando sceglie / di scendere in un canto / a rifiorire il domani / prova a cercarlo / all'angolo dove / s'incontrano l'io e il caos”. Dove s'incontrano l'io e il caos! Conoscete questo luogo? Non mi avventurerò in considerazioni tecniche. Non lo faccio mai. O quasi. Epperò mi piace sfiorarle. Vi dirò solamente che è un luogo di mezzo da frequentare, ché lì tante altre cose s'incontrano...