Tre poesie di Gianni Minerva



Attraversanti

So di gente che attraversa l’Adriatico per la svolta

delle dita fra i capelli, per strappare il cerotto attorcigliato

alla nuca assolata, e non sanno, che la fame s’attacca

anche ai nostri piedi firmati, alle unghia di ciglia

e ai nomi distratti dal tonfo d’un tasto, premuto in fretta,

a cambiare il punto di vista. Siamo tutti qui, nell’archivio.

Qui le schede raccontano viaggi impervi, fatti solo di fumo

negli occhi, a insalivare le mani che raccolgono. E di passi

in attesa di avere, di avere senza dare o concedere.

Mi chiamano illuso, perché porto speranza nel taschino,

perché mi agito poco, sogno spesso,

e non so dirmi sconfitto se sbatto contro un muso di legno.

Urlate quel che vi pare, non vi giudico, non so farlo,

mia madre pensava al futuro, le serpi le vedeva fra i capelli,

non pensava alla bocca, non leggeva futuri nel lavello.

Lei dirocca castelli per aria, spinge le mani ad abbrancare gomitoli

di piume e cera, che il figlio non ha difetti, ha smangiato solo la via.

La via del domani che già si presenta nell’alba dei gommoni in burrasca.


Via di ieri / L’isola bambina

Un ponte levatoio accementato, mi teneva

lontano dalle grinfie dell’asfalto sfumacchiante.

Sono nato su un isola di mattoni,

quasi tutti marroni, circondato da mura

smangiucchiate, con crepe per vedere

donnine attente e linguacciute.

La strada affiumata si rincorreva, sbattendo

contro le porte, sballando a prendere storte;

io non avevo tempo per gettare

barche di rivista, ben fatte e ripiegate, nei rivoli

profumati di lavanda, colati via dalle feritoie

di pile crepate, dalle troppe camicie sfregate.

Mi aggiravo, furtivo, penzolante di calzoni,

scarpe slacciate e dita pronte ad annusare

le resine dorate, collante delle mie pareti,

edificavo regge sui rami del fico,

avvistavo battelli ebbri di parole urlate

che richiamavano l’attenzione al mio cadere.

E giornate distese, dove, improvvise, svoltavano l’angolo

vergini false o demoni travestiti,

trasportanti croci precarie di cristi slavati,

a rincorrersi, adulteri di fede e fuliggine,

tutti a bere l’altare, tutti a recitare rosari sbeccati.

Inclinavo l’orecchio, la verità scivola dal fondo,

e vedevo cappucci con punte di spade,

guerre parole canti dolore.


Otturazioni

Non ho pane da dare in pasto alle mie otturazioni,

le mani hanno solchi scavati, una vecchia li legge,

per strada, sfinita dal caldo afoso di queste vie.

Sono croci, le dico, inflitte nel palmo

di una terra che non riconosco;

e lei mi scaccia, esecrando, timorosa d’affanno.