Il ballo di San Vito non mi basta!

Ci sono cose che non si possono guardare: la pizzica d’un panzone di bianco vestito e “cu lu scarpinu lucidu” sull’erba del parterre d’onore d’avanti al palco, riservato quest’anno a fotografi e cineoperatori ed ai politici di rango che in coro sembrano ancora chiedersi ma “a du te pizzecau la tarantella?”. Ma lasciamo perdere. Altre cose, invece, chiamano lo sguardo e aprono il cuore: la bella faccia di Lamberto Probo che introduce il largo sorriso del grande scontroso della musica popolare salentina: Pino Zimba. Alla “buonanima” è dedicata questa undicesima edizione della Notte della Taranta.

“La vita è molto strana, può cambiare dalla sera alla mattina”, già la vita, sembra lontana da qui coi suoi tormenti, l’icona di un Salento desideroso di se stesso, ce lo dice con semplicità e franchezza, affacciandosi da uno schermo. L’attore che ha donato ad Edoardo Winspeare la potenza del suo naturale donarsi, il suo “sale”, la sua spontanea sapienza, ci dice che è necessario esserci, tentare, lottare, resistere. Ci sono cose, allora, che si devono guardare, sentire profondamente per tentare di capire dove l’antico torna al respiro del ridere. “Non ho mai abbassato la testa davanti a nessuno”, ancora ci dice (in chiusura, sullo scorrere dei titoli della clip realizzata dal suo maestro-allievo di cinema) uno Zimba-galantuomo che ritroviamo, vivo e sorridente, nella rigorosa canottiera bianca del piccolo Edoardo Zimba sul palco con Zimbarie a chiudere il tributo. Da qualche parte si discute di moltiplicare le Notti, le Fondazioni, perseguendo una sempre meno definita autenticità identitaria – da un po’ è così, nel Salento che si rincorre evento – ed ecco che sul palco, alle 10.45 in apertura del concerto”, si mostra la danza di Santu Roccu, quella di Torrepaduli, quella dei coltelli. Come dire… fucere puei, ma te quai tocca passi… se vuoi sapere come si fa! Buonasera Melpignano, è qui che si fa l’evento! Soltanto qui! Ascoltiamo una pizzica tutta di corde, di pelli battute e di violini, “forse” più vicina alla sua sostanza, in una miscela di pop sinfonico che non smentisce le origini compositive di Mauro Pagani. Alla sua seconda conduzione dimostra di aver pienamente accolto lo spirito e le modalità di costruzione utili a concertare questa orchestra di musica popolare. Un'orchestra che appare essenzializzata, un palco semivuoto se paragonato a quello sontuoso del muro organettistico e ritmico di Ambrogio Sparagna. Ma l’effetto di questa asciugatura non va a scapito del suono, sapientemente accordato ad un sound progressivo, denso di riferimenti mediterranei, che nella magistrale batteria di Antonio Marra trova la chiusa energetica.

L’apertura è tutta al femminile a bilanciare il finale tutto in mano ai “massicci” di Puglia. La Puglia!, il maestro-presentatore continuamente sottolinea la particolarità di questo 2008 mentre la “terra della musica” è introdotta dalla voce bambina di Vito Nigro, albero di canto di Villa Castelli (termine in voga quest’anno a designare quelli di grado più alto nelle gerarchie della tradizione). Poi la faccia diavola di Mimmo Epifani tesse ed incanta con la sua “mandola” elettrica una “donna riccia” in un suadente tributo a Modugno. Le lingue si mischiano, Nabil Salameh e Michele Lobaccaro, fanno l'augurio di una festa capace di unire nell'incontro le “qualità” delle culture. Nutrirsi delle diversità, farsi quieti, aprirsi al mondo, accoglierlo è questo Rokia Traorè, semplicemente questa energia che provoca emozione quando le parole del “suo” griko vibrano frequenze del “suo” Mali. Uno dei momenti più belli del concerto calibrato su due andature, scalda con Richard Galliano e strazia quando Ninfa Giannuzzi tocca le corde scoperte di un dolore mai sazio di lacrime con “Sidun” dell'amato Fabrizio De Andrè, tradotta in salentino.

C'è una Taranta, un “morso” necessario, quello che il tempo provoca con le sue storture: il brutto che invade, la precarietà, il disagio, la guerra che torna. Un “morso” che chiama alla presenza. La musica di questo deve farsi carico. La catarsi della festa non è evasione, distrazione, dimenticanza, pausa. Nell'incanto delle sospensioni è sempre necessario trovare l'energia della consapevolezza. “Bellu l'amore e ci lu sape fare” canta la pizzicarella: un amore largo, vasto per quanta è vasta la terra. Accoglierla per intero significa portarla alla sua essenza di natura, d'Amore, appunto. Abbraccio che si oppone, resiste e tenta risolvere. Questo l'abbiamo dimenticato, abbandonato all'imperio di un economicismo senza soluzione! Ah! La politica che non si accorge. Incapace di canto, incapace d'amare, incapace di proteggere. L'artista giullare, l'artista bastardo, quello sì, la dannazione l'attraversa, la vive tutta, piegato al “volere” della poesia: “e lu sule calau, calau... Iti fattore, ieu me nde vau”! Non c'è padrone che tenga.

Divagazioni? No, ricerca d'essenza. Enza Pagliara con “Malachianta” (un pezzo forse scritto da Rina Durante) si chiede il perché del canto se la pena resta e non c'è più scampo alla malattia del mondo. Come sanare la pianta se continuiamo a tormentarla? Sul fondo sfoca la danza in bianco e nero di Carlo De Pascali e Raffaella Aprile, la grazia rotante fa auspicio d'innamoramento ai 150.000 che riempiono Melpignano. “Comincia la guerra!”, annuncia Mauro Pagani, quella necessaria dei giullari, densa di ironia, capace di frecce sarcastiche, di graffi e di risate e... il volume si alza: Après la classe e Caparezza, alias Michele Salvemini da Molfetta, indossa una maglietta con su scritto “Il futuro non è più quello di una volta”. Ecco la chiave, un altro futuro bisogna immaginare, patrunu meu! Un altro domani! Un risveglio, un risveglio che “viene a ballare in Puglia” per capire cosa non va, si gratta le palle e fa lo scongiuro! E poi? Poi tocca a loro: sciamu moi!, che il risveglio del movimento salentino ha un nome certo: Sud Sound System, stupore e conferma della terra dei suoni, mai sazia d'emozioni. Dammene ancora! Dammi ancora parole necessarie, utili, dammi ritmo, che ballare sia ancora antitodo! Rosso è il colore del rispetto, come quello del sangue, del cuore, della terra dove preservare le radici, dice Terron Fabio a prologo della “poga” finale saltata sulle note dell'indimenticata “È festa”.

Ma, c'è sempre un ma! E, un giullare-mammuttones che dice “Ho il ballo di San Vito e non mi passa!”