I luoghi della nuca. La scrittura di Luisa Ruggio




Ogni frammento di pelle

è pronto a parlare alla minima sollecitazione, a lasciar segni.
Non esiste nessun altro mestiere artigianale
che, più di quello della scrittore, implichi il mettere in gioco il sé.
Lo stile altro non è che il proprio modo di essere, di sentire, di vivere.
Nel bene e nel male si scrive quello che si è.


di Elisabetta Liguori
Ora che l’estate si avvia alla sua giusta conclusione, posso dire con certezza che, come già altre volte mi è accaduto, avrei voluto viverla più a fondo, immergermi nei giorni ora dopo ora, sentire il mare brontolarmi addosso, la frutta zuccherina scivolarmi in gola, il sole scaldarsi su di me, il tramonto rinfrescarmi per gradi. Avrei potuto posare la carta dei libri che amo sulla mia pelle e lasciarla penetrare, aderire, come fa mio figlio coi trasferelli che trova nelle patatine e un po’ d’acqua tiepida. Questa estate, come altre stagioni già vissute, sarebbe potuta essere un’occasione più produttiva. Ad esempio avrei potuto vivere anche un solo mese come Luisa Ruggio scrive i suoi romanzi: dentro. Dopo aver letto la sua ultima opera, “ La nuca” edito da Controluce nel luglio scorso, questo desiderio è, infatti, diventato forte e dolente nello stesso tempo. E il desiderio molto spesso è cosa buona.

Ecco: la Ruggio parte da una simile suggestione iniziale: il desiderio è la terra d’origine della scrittura come della vita. Da questo assunto tutto il suo romanzare. Nei suoi testi nulla è casuale, tutto sembra poter essere svelato, compreso, toccato, partorito, se pure non tutto può essere raccontato. Ma dove la parola non arriva, arriva il corpo. In questo senso la scrittura della Ruggio è corporale e omnicomprensiva.

Analizziamo in particolare la terra di Hydrunte del suo ultimo romanzo. In questo immaginifico falso storico della Ruggio, il medioevo incontra Soletum, la metafisica occidentale e la malia orientale di Matteo Tafuri, il suo mistero, i suoi paesaggi, la terra rossa, la pietra friabile come biscotto al burro, e partorisce un personaggio femminile dalla forza verginea travolgente. Hyrie: il suo nome è un sussurro. Il rosso dei suoi capelli sin dall’incipit annuncia il fuoco, seppur celandolo sotto una cuffia di cuoio, attraverso la quale la stessa protagonista riesce a fingersi uomo, anche se per poco, al fine di giungere fino alla fonte del suo desiderio: la parola scritta. Hyrie è una donna d’altri tempi, ma nello stesso tempo modernissima nella sua battaglia. Privata di ogni sapere, resta nel tempo fertile, accogliente, gravida di enormi desideri. La sua nuca è immacolata. Fugge al giogo di una terra che la vuole succube e silenziosa, ad un marito ottuso, a spazi angusti, e nulla può fermarla. Va dritta verso la cosa che più di ogni altra sembra affascinarla: la parola. Verso un mestiere, incontrollabile e vasto, da tutti ritenuto adatto solo a uomini o streghe. E’ così che impara a conoscere luoghi segreti e gli uomini che li abitano. Due uomini, in particolare, uniti dalla sorte, ma divisi dalla passione, che altro non sono se non i due volti della parola stessa: alchimia e filosofia. Oriente ed Occidente. Due giocatori di un’unica partita, alla quale d’improvviso s’aggiunge Hyrie, alterandone ogni regola, scompaginando le carte, rendendola infinita, astraendola dal tempo.

Da donna curiosa, libera, appassionata e vorace, Hyrie ama entrambi i fratelli e sa che potrà averli solo diventando scrittura. È questa la metamorfosi a cui aspira: trasformare il suo corpo in scrittura e farlo con/per amore.

La grandezza di un testo come questo secondo (dopo il successo di Afra per la BESA editrice)di Luisa Ruggio, è tutta in questo gioco d’ombre. L’autrice muove le sue dita sotto la luce e riproduce, cani, conigli, aquile, serpenti alati, colombe in volo. Scrive d’amore e carne, e lo fa per parlare di scrittura, perché non v’è tra questi elementi alcuna differenza reale. Riflettiamoci. Non esiste nessun altro mestiere artigianale che, più di quello della scrittore, implichi il mettere in gioco il sé. Lo stile altro non è che il proprio modo di essere, di sentire, di vivere. Nel bene e nel male si scrive quello che si è. Mestiere assurdamente difficile, dunque, quanto desiderabile. Raccontare la propria carne e la propria anima, non mentire, non tralasciare, non svicolare, è estremamente faticoso ma il fine di una simile fatica è sempre e comunque l’amore, amarsi e farsi amare. Solo questo. Ecco perché esistono così tanti scriventi e così pochi scrittori. Ecco perché si può arrivare a scrivere con il corpo e sul corpo. Ecco perché quando questo desiderio diventa arte acquista un potere infinito. Hyrie è infatti una donna di grande potere. Tutto quello che fa o è, sembra naturalmente destinato a trasformarsi in scrittura e tende a raccogliere, a possedere e ad illuminare il mondo. Dalla sua nuca in poi.

I due fratelli dello scriptorium nel quale Hyrie cerca di farsi spazio la desiderano proprio per il potere che le riconoscono. Insieme diventano un trio indissolubile che, cibandosi di carne viva, genera parole sublimi. In particolare Gherib, l’alchimista che colleziona nuche sulle quali scrivere la sue parole nuove, quando incontra la nuca lattea e infinita di Hyrie si rende conto di aver finalmente ultimato la sua lunga ricerca. Comprende di colpo di aver trovato la carta da cui cominciare; il corpo fatto foglio che può finalmente dire anche l’indicibile. Matteo, l’altro fratello, invece, non vorrebbe dilapidare i tesori di Hyrie. Lui è più riflessivo: gigantesco custode dei libri e del bello, tende alla protezione della donna-libro. Lui si fa mantello che difende, nasconde, preserva. Lui è pronto anche al silenzio e all’attesa per amore. Quello che comunque unisce tutti i personaggi di questa storia magica (il triangolo della scrittura amorosa, i ruffiani, la bambina violata e gelosa, i barbari uomini di chiesa, i mendicanti, gli alberi intarsiati, i pescatori, le puttane, i cavalieri, le schiave nere come olive al porto) è l’Incanto. La parola incanta tutti. Solo lei sa farlo così. Chi la ama conosce questo segreto. La Ruggio elabora questo gheriglio letterario in modo sapiente, immergendolo in atmosfere medievali, apparentemente cupe, ma di grande sensualità. La nostra terra, la Soletum misteriosa dai campanili diabolici alla ricerca di architetti epici, è un perfetto teatro delle ombre.

Umile so net umiltà me basta. Dragon diventarò se alcun me tasta. Ogni dito in questo romanzo è macchiato d’inchiostro. Per questa ragione ogni frammento di pelle è pronto a parlare alla minima sollecitazione, a lasciar segni. Diventa diario di vita. Persino il cibo è nero di china, infinitamente goloso e sensibile. La costruzione narrativa e il lessico, ovviamente, è ugualmente inchiostrato, teatrale. Trasuda desiderio e s’oppone chiassosamente al silenzio di tanta altra letteratura contemporanea. Possiamo dirlo: quello della Ruggio è un romanzo d’atmosfera, la cui fascinazione lascia macchie indelebili e che “come un calco di gesso in attesa della colata” è destinato ad evocare, imprimere, generare.