Un racconto di Elisabetta Liguori

L’eternità del tatuatore


C’è un cartello sulla vetrina, poco sopra la grande maniglia antipanico, con orari, nomi, e foto pubblicitarie. Non soltanto una filosofia di vita, un intero mondo. Quando entro l’aria mi assorbe e d’improvviso mi pare di non produrre più alcun rumore. Lui deve essere Alex: una specie di creativo gestore di forme e profumi, fermo al centro dell’androne d’ingresso coi pantaloni larghi e l’ orlo di una mutanda nera, bene in vista.

Si fa solo per appuntamento, signora. (piega la testa, storce il labbro)

Nel senso? (piego anche io, sembriamo due scimmie allo specchio)

Nel senso che io le dico quando venire, e lei viene.

Alex ha un copricapo a forma di scodella rovesciata, con intarsi d’uncinetto. Dietro di lui s’avvoltola un enorme dragone rosso batik, accanto alla luce di una candela. Nei refoli d’ingresso che sanno d’incenso si muovono entrambi.

E cosa facciamo di bello? Cosa esattamente?(io, innocentissima donna)

Me lo deve dire lei, signora.

Un consiglio? Da uno del mestiere (ammiccante cambio di posizione della borsetta, da un omero all’altro, oplà).

Mah! Dipende.

Io lo vedo che Alex mi occhieggia le caviglie. Lo vedo e sono in pensiero per i miei capillari rotti. Molto in pensiero. Non vorrei mai che si dicesse che una con le vene varicose bluastre tutto intorno ai polpacci, e su a risalire pure sotto la gonna, invece che dal chirurgo vascolare, vada a farsi consolare da un tatuatore. Lo vedo e istintivamente mi siedo, accavallo le gambe e imbraccio quel mio solito piglio suadente, come se Alex e il dragone dipinto alle sue spalle fossero ciascuno emanazione dell’altro e io avessi in bocca un vecchio flauto. Vorrei che partecipasse anche lui della mia ormai imminente trasformazione, invece il ragazzone resta in piedi. Sopra di me. Insisto. Ormai sono pronta. Con la punta della lingua mi sfioro gli incisivi tra un sorriso e l’altro. Ho faticato tanto e vorrei che anche lui sapesse, quindi in ultimo mi mordo il labbro.

Caro il mio bel serpentone con la scodella in testa, non muta espressione di una sola oncia. Il tatuatore immobile. Un morsetto appena che raccolga la giusta stilla di saliva fresca e gliela porga come ad una divinità, ma lui, niente. Alex aspetta che sia io a decidere. Una rosa, una polena, una farfalla, un cuore trafitto da un pugnale, il nome di battesimo di qualcuno. Per me andrebbe bene qualsiasi cosa, purché lui mi contamini col suo veleno colorato e permanente. Che lo faccia ora e per sempre.

Un’idea nata per caso.

Merico mi aveva detto qualche tempo fa che la sua bionda danzatrice di copla e flamenco ne aveva uno sulla caviglia destra ed un altro poco sotto l’ombelico, più piccolo. Durante i corsi serali del venerdì li esibiva fiera in vorticose contorsioni. Merico giurava di averli visti animarsi, battere armonici come un doppio cuore. Me lo aveva confessato una sera, smozzicando un panino al prosciutto cotto con le briciole sul mento e la rucola tra i denti e, chissà perché, la cosa m’era rimasta scolpita nella testa. M’ero detta: lo faccio anch’io, di certo! Quando poi sul tardi m’ero ritrovata a lavare i soliti piatti della sera, m’ero corretta: forse.

Con le mani a bagno maria m’ero ricordata di averci già pensato anni prima, ma senza esito. M’era ritornato alla mente un hippy alto come una sequoia che una trentina d’anni prima mi aveva detto che per farsi tatuare era opportuno sostenere un preventivo esame d’ammissione al marchio. Come per l’adesione ad un club esclusivo, far valutare da un tecnico, nel dettaglio, motivazioni, desideri, possibilità epidermiche, reale adesione psichica, attitudini. L’esame era da sostenersi su alcuni vecchi Permaflex sventrati, stesi sul pavimento unto d’olio d’un garage di proprietà esclusiva della sequoia stessa. Un tipo simpatico, paterno, competente, con le treccine al posto della barba e tante parole odorose di muschio e ricordi. Non m’ero mica presentata quella volta. A ripensarci, tra le mie mani tuffate a fondo della scolatura dei piatti sporchi e le bucce di patata a galleggiare tutt’intorno, trenta anni dopo, avevano cominciato a danzare corpi di donna, volute di fumo barocco, camice a scacchi fuori moda, canotte da culturista, ergastolani con le mani rinsecchite e strani simboli neri tra un dito e l’altro, e sbarre e catene e cellulite a strati porosi e caviglie stritolate da nervi viola, raccolti a mazzi.

M’ero detta: sono in galera adesso? E allora sia.

È per questo che sono andata da Alex. Adieu corpi nivei, immacolati labirinti, vecchie borghesi lavagne mute, adieu arterie pollose, tremuli rigagnoli d’ozio, autostrade sanguigne ostruite. Adieu segni di natura. Meglio l’arte, l’artificio. C’era Alex. Me ne aveva parlato la mia amica Paola, che gestiva un bar accanto al suo laboratorio. Prima un bel tatuaggio, poi un po’ di palestra e da quelli l’avvio dignitoso verso la rivoluzione, aveva giurato Paola ed io m’ero decisa, dopo aver bevuto tre caffè ed un Martini freddo.

L’appuntamento è dunque per giovedì prossimo. Ho tre giorni interi per capire meglio. Merico dice sempre che ho bisogno di troppo tempo per vivere. E che tempo, così tanto in generale, non ce ne è per nessuno. Per una madre certe frasi sono come le opere di uno scalpellino: minuzie che segnano nel profondo. Mio figlio ha ragione: tre giorni per me sono pochi. E troppi insieme.

Facciamo domani? (speranzosa, faccio segno di sì col collo per invogliarlo, e inverto l’ordine delle mie gambe accavallate).

Non so se è possibile, signora (oh, che grazioso musetto da coniglio peloso!). Mi faccia controllare un minuto.

Alex si sposta dietro il bancone decapato, tra teschi neri e lingue di fuoco magenta. Tira fuori un libro mastro con segnalibro a forma di coda di geco. Lo apre più o meno nel centro e segue i righi con l’indice e la testa bassa, come fanno i bambini alle elementari. Dice domani ok, dice forse, dice speriamo, dice magari quello del percing delle due mi da buca. Mi dice mi chiami a mezzogiorno. E mi saluta stringendomi la mano. L’anello di argento che gli serra il pollice a triplo giro mi scarica addosso duecentoventi volt. Quando esco dall’antro dell’artista scodellato la porta fa dlingl dlongl alle mie scarpe col tacco basso, mentre l’elettricità, a contatto con l’aria esterna, gradualmente si riduce.

Adesso ho un nuovo numero di cellulare nella borsetta. Una specie di torcia accesa nella tasca davanti, quella con la zip.

Alex ha la stessa età che aveva mio marito quando mi infilò la fede al dito e mi disse: lo vedi come è tonda? senza interruzioni, gira all’infinito, è per questo che adesso io e te siamo fottuti. Non più di 23 anni. Ci metterei la mano sul fuoco: l’ho visto dagli occhi. Hanno lo stesso languore e la stessa cupida stupidità. Ogni volta che ripenso a mio marito mi sembra di avere la testa montata all’indietro. Lo rivedo che si muove frenetico e dinoccolato verso di me e poi lo ripenso d’improvviso rigido, immobile. Duro come una scopa, dopo l’infarto del miocardio che lo gettò storto sul pavimento del tinello, intorno alle dieci di sera, oramai troppi anni fa. Merico rassomiglia a suo padre, la stessa fronte levigata, gli stessi riccioli crespi sulle tempie, ma non ad Alex, sebbene l’età sia quella. Sono circondata da ventenni. Tutti diversi, però, a parte gli occhi. E so di non essere veloce abbastanza da distinguere l’uno dall’altro.

Non ho neppure deciso dove farlo. Il tatuaggio. La spalla sinistra, l’interno del polso, l’incavo della nuca? Ci sono frazioni del proprio corpo che bisogna mandare a memoria, altrimenti il tempo se le ingoia.

E per farlo ci vuol qualcosa che del tempo se ne sbatta.

E se poi, per qualche ragione, non dovessi riuscirci? Il colore che svanisce, l’ago che si rompe, la luce che se ne va, io che ho un calo di zuccheri, non so, una circostanza qualunque. Quando mio marito morì nessuno aveva mai neppure ipotizzato che potesse accadere. Sembrava dovessero campare all’infinito, lui e le sue api in giardino, lui è la sua poltrona a righe nel soggiorno, lui e la sua cassetta della posta con la chiavetta piccola e il postino delle tre che arrivava col motorino e sotto il casco urlava il suo nome, lui e le sue tre cravatte rosse da bancario lieve del lunedì, in pausa pranzo. L’eternità a questo serve in famiglia. A non liberare pensieri inutili. Nessuno mai l’aveva mai messa in dubbio, l’eternità di mio marito, pur nel suo silente rimpicciolire.

Forse dovrei ritornare da Alex subito e accertarmi che domani si possa fare davvero. Il tatuaggio. Insistere come sanno insistere le donne, quando ne hanno voglia. Forse dovrei rientrare e sorridergli ancora una volta, tacchettando come un’intera tribù africana che prega, dentro i suoi occhi golosi di birra a doppio malto.

Ma è quasi buio. Le strade s’inzaccherano troppo a novembre e il fango sul travertino del centro storico mi rallenta. Cerco un posto adatto ad una telefonata. Compongo il numero.

Pronto? (una voce femminile, puberale ma decisa, almeno un paio di scalini più su della mia da pasionaria zoppa).

Mi scusi (m’arrampico, meglio darle del lei, non si sa mai, distante ma amichevole). Vorrei parlare con Alex. Per quel lavoretto piccolo piccolo. Il tatuaggio, sì. Ho bisogno di confermare con sicurezza l’appuntamento che m’ha dato. Sa, devo organizzare le mie cose (esaustiva, meticolosa, ma disinvolta) Me lo può passare, grazie?

Mio padre si chiama Mauro.

Oh…(suo padre? La prole eterna del tatuatore?)

Non fa tatuaggi.

Ah, No?? (autentico stupore)

Fa il chirurgo.

Ah. Estetico? (con simulato interesse)

No, cardio. Cardiochirurgo (rigorosa la mia fanciulla).

Oh, bene. Sono contenta. Una cosa seria. Un chirurgo è…sempre un chirurgo.

Buonasera.

Sì. Infatti… Buonasera (cortese, ma decisamente frammentaria).

Ha ragione Merico. L’eternità non è una cosa seria. Quanti anni avrà avuto la ragazzina? L’eternità è solo una misura. A questo punto sono più confusa di prima, mi tocca ammetterlo, forse è perché continua a piovere da giorni. Forse solo per questa ragione.