Le donne di Ulisse di Alessandra Manieri

Dal profondo dell’ assenza

di Antonio Errico

Ulisse ha la fisionomia di una figura dell’assenza. Non ha parola; è l’eco di una nominazione che trova motivi e moventi in una semantica del silenzio; è il riflesso di una apparizione proiettata dal fondo misterioso di un poema, lemure di una complessità di senso, fantasima che agisce come interferenza nel testo e nel contesto di un discorso amoroso.

Perchè questa poesia di Alessandra Manieri (edita per I libri di Icaro, nlla collana i voli) – questo suo intercettare voci di un’altra poesia – ha la ragione e l’emozione di un discorso amoroso , nella valenza concettuale e sentimentale che alla parola d’amore, sull’amore, per l’amore, attribuisce Roland Barthes quando dice che storicamente il discorso dell’assenza viene fatto dalla Donna: è la Donna che dà forma all’assenza, che ne elabora la finzione.

Ecco, allora. Quelle icone dei destini alle quali Alessandra Manieri (ri) concede il privilegio della parola, elaborano un lutto attraverso la ricomposizione di una forma dell’assenza, la tessitura di una memoria di desideri rimorsi rimpianti rinunce tremori, rabbie e dolcezze pacate, risentimenti, ossessioni.

La conoscenza e l’esperienza ermeneutica che la Manieri ha del sistema simbolico- culturale dell’opera di Omero le consente di percepirne il riflesso, la rifrazione, la continua rigenerazione del senso.

Non fanno altro che questo le donne di Ulisse: rigenerano il senso di una condizione di esistere, si riguardano allo specchio di un destino che è, ad un tempo, irripetibile e reiterato.

Le donne di Ulisse narrano a se stesse universi di ricordi come argini alla dimenticanza, all’amnesia. Parlano senza interruzioni. Ricordano e parlano. Sprofondano nel languore di una nostalgia che increspa come un’onda e come un’onda comprende – celandolo – l’abisso.

Ricordano, parlano e ritornano. Il loro logos, il dipanarsi del discorso amoroso, è un nostos verso l’origine della storia, l’ora emozionale del principio.

Ritornano, ricordano, parlano, e dicono: tu. Dicono tu all’altro – che chiamano Ulisse -, a quella espressione del tempo irreversibile, a quella figurazione di una felicità irraggiungibile. Ma dicono tu anche all’altro che sono state: ad un altro volto, altri sguardi, altri pensieri, ad un altro immaginario, un altro piacere, ad altre colpe e ad altre innocenze, ad un’altra dimensione del sogno, ad altre immaginate carezze. Ma soprattutto: a un’altra verità e un’altra menzogna del tempo, dell’identità, della poesia.

Allora il tu è la conferma che l’altro c’è stato. E’ la consolazione che dà la consapevolezza della reciprocità delle esistenze. E’ l’epifania dell’alterità che in qualche modo lenisce il dolore per l’assenza.

Dire di sé e dell’altro da sé è un modo – forse l’unico modo – per resuscitare il tempo appartenuto a sé e all’altro; la lontananza si riduce attraverso un costante farsi prossimo, un aprirsi all’accoglienza di un ritorno, un rendersi disponibile al rispecchiamento e al riconoscimento del proprio volto in quello dell’altro, alla simbiosi dell’identità.

Ma nella poesia di Alessandra Manieri, le donne di Ulisse non azzerano mai la distanza tra l’ora del ricordo e l’allora dell’evento, tra il presente e il passato, tra la ragione e il sentimento del tempo.

Calliope, Circe, Anticlea, Calipso, Nausicaa, Penelope, sanno – o comunque sospettano, percepiscono, intuiscono - che la parola e il racconto sono possibili solo nella differenza inconciliabile della temporalità, nello scarto tra vissuto e rivissuto, nella zona franca che si apre tra il vero della storia e il verosimile della memoria, nella polisemia delle emozioni provocate dalla nostalgia – dal nostos e dall’algos - , nella reinvenzione, attraverso il ricordo, della passione d’amore.

Fuori dalla parola e dal racconto – prima e dopo l’aver detto e l’essersi dette – per le donne di Ulisse c’è solo lo sprofondo del niente, la palude dello straniamento, il silenzio dell’inappartenenza.

“ Atroce silenzio”, “vuoto silenzio”, “atroce glaciale silenzio”: sono sempre associazioni con la morte o i suoi sintomi, i suoi annunci.

Dice Jorge Luis Borges nella Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, che “ qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento : il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è”.

Le donne di Ulisse di Alessandra Manieri raccontano il momento della conoscenza di sé, avvertita come scoperta, rivelazione, disvelamento; traducono in espressione di parola ( “ solo riscatto al nulla”, “ traccia di vane ombre” ), il farsi e il disfarsi, in un solo momento, del proprio destino.

Così i monologhi si articolano e si sviluppano in movimenti circolari: prima ruotano intorno a nuclei tematici basici, imprescindibili, essenziali, poi perforano la struttura testuale e metaforica stratificata delle figure omeriche fino a raggiungere quel “ solo momento”, il motivo assoluto e insostituibile, il senso irripetibile che ha determinato l’incipit e l’explicit, la trama e l’intreccio, il tempo e lo spazio di tutte le storie, di ogni destino.

Il profilo originario di queste esistenze di donna rimane riconoscibile in modo preciso.

La Manieri non vuole demitizzarle. Meno che mai intende attualizzarle.

Loro parlano come avrebbero parlato nel poema se avessero detto quello che dicono qui. Avrebbero avuto le stesse immagini, le stesse delicatezze, gli stessi pudori. Le stesse spossate interrogazioni. Gli stessi teneri trasalimenti.

C’è, in queste creature, la consapevolezza poetica di provenire da un universo atemporale.

Sanno perfettamente di essere un’ombra che si spande e si dilata per tutto l’immaginario occidentale.

Sanno che riescono ad essere mito perché sono corporeità umane – troppo umane- : che hanno felicità e dolori, inquiete mutevolezze e innocenti stupori , talvolta qualche sollievo di oblio, spesso laceranti, lancinanti ossessioni.

Sanno di vivere dentro il dolcissimo delirio di un’antica leggenda. Ma conoscono a memoria e ad ogni istante si bisbigliano quei versi con cui Fernando Pessoa chiude il suo “ Ulisse”: “ La leggenda così si dipana,/ penetra la realtà/ e a fecondarla decorre./ La vita, metà di nulla,in basso muore”.